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È strana la storia di Carl Maria von Weber.

Personaggio eclettico e molto amato ai suoi tempi, parente di Mozart, allievo di Haydn, idolatrato da Wagner (che curò la traslazione delle sue spoglie mortali da Londra a Dresda) è personaggio cardine del passaggio dal classicismo al romanticismo. La sua musica è per lo più dimenticata oggi, se si fa eccezione per il Der Freischütz che, comunque, appare con rara frequenza sui palcoscenici internazionali e ancor meno italiani. La Scala non l’ascoltava da circa vent’anni.
Von Weber diresse il Fidelio nel 1814. Ne Il Franco Cacciatore (scritto tra il 1817 e il 1821) l’autore assimila la lezione beethoveniana trasportandola in un mondo in cui l’evoluzione del romanticismo si dirige verso visioni che appartengono a un universo figurativo e di valori più vicino a quello di Caspar David Friedrich che alla nobiltà di sentimenti di Florestan e Leonore.

La drammaturgia dell’opera è debole (soprattutto nel terzo atto) ma la musica è sublime, a partire dalla travolgente ouverture.
La regia ordinaria di Matthias Hartmann e la direzione superlativa di Myung-Whun Chung hanno ancor di più evidenziato questa dicotomia tra debolezza dell’impianto narrativo e prodigio musicale. Il maestro coreano, che per nostra fortuna è ormai ospite regolare della sala del Piermarini, ha unito il fuoco e il trasporto romantico a una lettura di eccezionale dettaglio e trasparenza. Il suono teso degli archi e il colore dei violoncelli hanno fatto risaltare la prestazione superlativa della sezione dei legni. Non una sola sbavatura in tutta l’orchestra: la direzione di Chung è una vera lezione sul dramma musicale romantico, che lascia comunque trasparire le radici settecentesche soprattutto nel terzo atto nelle interazioni tra Agathe e Äennchen.

Il coro ormai ci ha abituato a prove straordinarie in ogni stile e in ogni lingua e, anche in questo caso, si conferma uno strumento duttile e infallibile. Fatta eccezione per la prova corretta ma di scarsa incisività del Max di Michael König, tutti i cantanti, anche nelle parti secondarie, hanno contribuito a una prova di grande livello e omogeneità. La bella voce di Günther Groissböck ha disegnato un Kaspar molto intenso e dall’alto contenuto di testosterone e malvagità. Un finale di secondo atto da cardiopalma. Altrettanto notevole è l’Agathe di Julia Kleiter, che canta meravigliosamente bene l’aria dell’abito da sposa del terzo atto.

È la parte visiva che lascia perplessi. Una regia sostanzialmente priva di invenzione, accompagnata da scene principalmente descrittive costruite attraverso tubi al neon che suggeriscono ora il villaggio ora le montagne. È forse l’idea di immergere tutta l’azione scenica in un intrico di tronchi che simboleggia la gola del lupo, l’essenza del male sempre presente, il miglior suggerimento che ci offre il regista. Forse un po’ poco. I costumi iperdecorati e colorati ma di rara bruttezza sicuramente non aiutano. Grande e meritato successo tributato al direttore e alla compagnia di canto.