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«E qui ci pare che il giovane Christian Thielemann sia un direttore molto dotato. Sensibilissimo al variare delle atmosfere, molto preciso con l’orchestra, Thielemann è anche molto duttile e ci consegna una lettura avvincente, cordiale, simpatica».

Queste le parole di Michelangelo Zurletti su Repubblica nel 1989 in occasione del “Wozzeck” di Torino. Ero presente a quell’esecuzione e l’emozione di quella sera la ricordo ancora oggi. Un suono denso, scuro che in un secondo sapeva rasserenarsi o squillare adamantino. Flessibilità di tempi, struttura, carica narrativa, trasparenze e tenerezze che si alternavano a fiumi di musica densa come lava. A 32 anni di distanza da quell’ascolto e dopo decenni nei quali il Maestro Thielemann è diventato uno dei direttori più importanti al mondo, non sembra che sia cambiato granché. Certo, il pensiero è più maturo e il suono controllato fino allo spasmo in maniera quasi sciamanica, ma l’impronta rimane identica.

Che concerto quello di venerdì 26 novembre della Filarmonica della Scala (una delle tre date in cartellone). Chiamato a sostituire l’attesissimo e amatissimo Esa-Pekka Salonen, il Direttore berlinese ci ha regalato una serata memorabile. Il tardoromanticismo in tutto il suo splendore e turgore. I “Vier Lieder op. 27″ hanno l’odore del rito di passaggio a una nuova era in cui le emozioni si complicano e il pensiero diventa più intimo e introverso. Thielemann sceglie, però, di rimanere ancorato alla tradizione romantica, un po’ Wagner, tanto Schubert. È soprattutto nei due lieder centrali (“Ruhe meine Seele” e “Morgen”) che la velata malinconia e la tenerezza respirano e il direttore abbraccia la voce sopraffina di Camilla Nylund con trasparenze e ceselli cameristici. E che interprete la Nylund, a suo agio in tutte le tessiture e in tutte le dinamiche come nello squillo finale del bis che ci hanno voluto regalare, “Zueignung op 10 n.1″.

Ma se si è rimasti estasiati nella prima parte del concerto è solo perché non si poteva immaginare (o forse sì, si sarebbe dovuto immaginare) il livello di esecuzione della “Quarta Sinfonia” di Brahms subito a seguire. Un fiume in piena, tempi serrati ma anche molto fluidi, archi in una tensione tale da sembrare un muro di suono bucato dagli eccellenti legni. È il secondo tempo quello più emozionante. Il fiume si rifugia in un’ansa tranquilla al punto da diventare uno specchio in cui riflettersi. Sono scese le lacrime.

Un Brahms decisamente tedesco ma nullaffatto teutonico. Goethe più che Schiller. L’impeto e la serenità in un’alternanza continua dal sapore umano e autentico. Chiusura con un finale del quarto tempo da togliere il fiato. Orchestra al suo meglio assoluto con gli archi che hanno, probabilmente, regalato la loro più grande prova di sempre.