K65A9055 Vannina Santoni

Che strano periodo. Che strana opera. Che strano compositore, Charles Gounod. Un compositore di transito, in un periodo di transito, con una musica di transito.

Ci sono periodi della storia e della storia della musica che cercano una via, un’identità. Coevo di Berlioz, Verdi e Wagner, Gounod appartiene ancora all’epoca di Meyerbeer e Donizetti. Roméo et Juliette, insieme al Faust, è l’unico lavoro operistico che ci ricorda ancora di lui. Un’opera piena di buone intenzioni che non conducono però mai al capolavoro.

La Scala ci ha abituati “molto male”. Viviamo in una continua “hype scaligera”, per via della quale ogni rappresentazione sembra dover evento e stupore. Non accade questa volta. Bisogna dire che i mezzi non sono stati lesinati con un cast di “all star” e che, per onestà del vero, questo Roméo è ben al di sopra di qualsiasi produzione di routine dei principali teatri mondiali (Monaco, Berlino, Londra o New York). Ma la magia non accade.

Nella serata del 21 gennaio due defezioni importanti dell’ultimo secondo: Diana Damrau e Marina Viotti. I coniugi Testé/Damrau probabilmente si sono passati l’influenza. Se qui manca la Damrau (da fan della cantante sono rimasto molto dispiaciuto), abbiamo riconquistato Nicolas Testé (assente alla prima) con una prova davvero maiuscola nel personaggio non marginale di Frère Lauren. Lo attendiamo con ansia tra qualche mese in Arkel nel Pelléas et Mélisande. Una vocalità davvero opulenta, un’emissione dolce, una presenza importante. La Damrau è sostituita da Vannina Santoni, che fornisce prova egregia più sul lato drammatico che sulla coloratura. Il personaggio è cesellato a tutto tondo e si muove con grande naturalezza nel personaggio. Olivieri, Mingardo, Stroppa (che ha sostituito la Viotti) sono tutti non meno che perfetti con proprietà vocale, musicale e scenica.

Arriviamo al grande mattatore: Vittorio Grigolo. La presenza è sorprendente. Salta, zompetta, si aggrappa alle colonne con un’agilità che forse solo Kean. Ma non è nella vitalità il punto di forza. Quest’uomo è magnetico, uno di quegli artisti che quando è sul palco non gli puoi togliergli gli occhi di dosso. Ne è dimostrazione l’inizio dell’opera: poco dopo l’apertura di sipario (che apertura non in quanto la scena, senza ragione, è visibile al pubblico sin dall’accesso in sala), mentre una pletora di personaggi “settecentovestiti” prende posto su decine di sedie sparse qua e là sul palco, Roméo si mischia tra la folla in seconda linea. Lo vedi.Lo vedi subito e da lì in poi non puoi togliergli gli occhi di dosso. Magnetismo naturale, si diceva. È l’interpretazione che lascia dubbiosi. Se vocalmente poche, pochissime, cose si possono dire (qualche acuto stiracchiato o non completamente coperto), non si capisce perché un cantante, che veramente potrebbe lasciare il segno nella storia tenorile, debba essere continuamente sopra le righe. Basterebbero la grazia e la maestria con cui ha intonato un “Ah, lève-toi, soleil!” per consacrarlo. Avesse cantato con lo stesso stile l’intera opera ci troveremmo davanti a un Beniamino Gigli redivivo. Così purtroppo non è stato.

C’è poi Lorenzo Viotti, il direttore di cui si è potuto apprezzare non esclusivamente la venustà ormai diventata preclara anche grazie a Instagram. Viotti è una promessa mantenuta. A 29 anni la sua classe è innegabile. Il gesto è efficace, la sintonia con l’orchestra evidente. Ma la magia non scatta. Tutto è perfetto nelle note dolenti, così come nelle danze e nell’equilibrio con il palcoscenico (ottimo, come al solito, il coro che qui certo non è risparmiato). È che l’opera, in questa sua incertezza stilistica, per reggere il palcoscenico oggi avrebbe bisogno di una lettura radicale che qui non c’è stata, mantenendosi invece parecchio prudente. Della regia c’è poco da dire. Routine e qualche trovata. La Scala, nella tradizione come nel teatro di regia, ci ha abituati a produzioni più pensate.

foto credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala