
Che la Filarmonica della Scala sia una grande orchestra è fuori dubbio.
E lo ha nuovamente dimostrato domenica 21 giugno, agli Arcimboldi di Milano, dove si è cimentata nell’esecuzione di due pezzi del compositore contemporaneo cinese Tan Dun, presente in veste di direttore d’orchestra. Una sorta di sfida, poiché il repertorio in cui l’orchestra spazia maggiormente non è certamente quello contemporaneo.
La serata, terza del ciclo Discovery proposto quest’anno dalla Filarmonica, è stata introdotta dal direttore artistico Ernesto Schiavi in dialogo con Tan Dun stesso: i due hanno spiegato come il legame tra l’Italia e l’Hunan (provincia dalla quale proviene il Maestro Tan Dun e di cui nei brani è celebrata la cultura musicale popolare) si possa far risalire addirittura ai tempi di Puccini, che nella sua Turandot – in cartellone fino a poco tempo fa presso il Teatro alla Scala – mette in bocca a Pong, “gran cuciniere” ministro del regno: “Ho una casa nell’Honan / con il suo laghetto blu / tutto cinto di bambù”. Oggi come allora è vivo il desiderio di mantenere vivo lo scambio e dunque il concerto viene presentato simbolicamente come un viaggio, di andata (Marco Polo alla scoperta della Cina) e di ritorno (Tan Dun in viaggio dalla Cina verso l’Italia).
Non è un caso, allora, che proprio il primo dei due brani eseguiti sia Four Secret Roads of Marco Polo per orchestra e 12 violoncelli. Bellissimo. Diviso in 4 itinerari, sulle orme del grande veneziano, il brano guida l’ascoltatore in intriganti esplorazioni sonore, nelle quali non mancano l’utilizzo del sitar indiano, della pipa cinese o della voce stessa dei musicisti, impegnati in brevi interventi vocali. Il suono caldo dei 12 violoncelli all’unisono (quasi perfetti nell’esposizione di una melodia non certo semplice) si alterna alle esposizioni di ogni singolo da una parte (ad esempio nel primo movimento, Out of Venice) e all’amplificazione di tutta l’orchestra dall’altra (come nello Scherzo, Baazar of Souls), toccando tutta la gamma di sonorità dal pianissimo al fortissimo e creando atmosfere dalle più bucoliche e luminose alle più tenebrose. Il risultato è veramente affascinante. Molto ampio anche l’impiego di timpani e percussioni, sfruttati in tutte le loro possibilità: addirittura, svela Francesco Gala nel programma di sala, Tan Dun ricorre ad un gong bagnato in acqua per l’ultimo dei quattro movimenti: Temple of Heaven.
Nella seconda parte, invece, il Maestro ha diretto, con gesto impeccabile e sicuro, uno forse dei suoi brani più famosi, The Map, già eseguito dalla Filarmonica della Scala nel 2008. La composizione, per violoncello, video e orchestra, nasce dall’incontro durante un viaggio nello Hunan con un uomo esperto di antichi rituali e abile suonatore di pietre; la scomparsa di costui, come di certe usanze cinesi da sempre tramandate oralmente, ha spinto Tan Dun a raccogliere in video, suoni e immagini testimonianze della cultura di tre etnie cinesi – Tuja, Miao e Dong – e riproporle nei suoi pezzi, creando un insieme di tradizioni orientali e occidentali. Il risultato è una sorta di concerto grosso multimediale, in cui l’orchestra si deve destreggiare con interventi registrati, nenie cantate da donne cinesi o dialogare con strumenti quali foglie suonate con le labbra. Anssi Karttunen al violoncello si mostra completamente a suo agio nella parte di interlocutore primo con le melodie registrate: egli riesce a tirar fuori i mille colori che uno strumento come il violoncello può offrire e non si lascia sopraffare dai video, riuscendo a mantenere l’attenzione del pubblico che facilmente potrebbe distrarsi perdendosi nei video sullo sfondo.