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Guardi una foto di Gregory Porter e pensi che la sua è proprio la voce che ti aspetti da un ragazzone con il cappello alla Holden Caulfield che ricorda Thelonious Monk.

Calda, sensibile. Poi la riascolti e pensi: questa è una voce nera. Che è calda, sensibile, ma anche rabbiosa, funky, soul, gospel. Jazz. È la voce di un bambino convinto che suo padre (che in realtà non ha mai conosciuto) fosse Nat King Cole – perché la voce che ascoltava a casa poteva essere solo quella che ti aspetti da un padre – e che poi è cresciuto con i cori della sua chiesa e i dischi di Marvin Gaye.

E così, dopo “Water”, l’esordio per cui ha ricevuto una nomination ai Grammy come miglior jazz singer (lo scat iroso di “Black Nile”, la dolcezza di “Skylark” e, su tutti, “1960 What?”), Porter ha inciso “Be Good”, che è una perla, più eclettico, autobiografico e confidenziale (“Real Good Hands” e lo standard “Work Song”).

Il 17 settembre uscirà “Liquid Spirit” e non sarà una sorpresa: alla terza prova, questo ragazzone con l’inseparabile cappello è già una certezza e ci regalerà sicuramente un altro album indimenticabile. Pubblicato, non a caso, dall’etichetta a cui si è ispirato il Blue Note, che proprio stasera festeggia i suoi primi dieci anni di attività.

Esecutori:

Gregory Porter Quintet

Gregory Porter, voce
Chip Crawford, pianoforte
Aaron James, basso
Emanuel Harrold, batteria
Yosuke Satoh, sassofono

Secondo spettacolo alle ore 23.30