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Che uno dei Festival di Musica contemporanea più importanti d’Italia inauguri con un brano del 1975 dovrebbe far riflettere. Cosa si intende per contemporanea?

Il fatto che il brano in questione, Inori di Karlheinz Stockhausen, sia eseguito in prima italiana (nel 2015 a Bologna era stata proposta una versione con orchestra su nastro) porta a riflettere ancor di più: possibile che un brano del genere, fondamentale nel percorso di Stockhausen e di tutti i compositori nati dopo di lui, anticipatore di tutta una musica successiva, non sia mai stato eseguito in Italia? In questa luce l’operazione della biennale di Venezia diventa fondamentale, necessaria.

Lo spazio è quello fascinoso del Teatro delle Tese, all’Arsenale di Venezia. Il pubblico è numeroso.
Come spiega il programma di sala, Inori «Conduce al di là dei limiti comuni di pensare un evento musicale collettivo»: è infatti una liturgia (il cui fondamento è un unico sol), astratta, scevra da qualsiasi legame con alcuna religione ma che allo stesso tempo le comprende tutte, guidata da un danzatore muto (in questo caso una danzatrice, Roberta Gottardi) che sovrasta l’intera orchestra compiendo gesti rituali: tredici per l’esattezza, come i suoni corrispondenti. Implicita diviene la correlazione tra corpo umano e corpo sonoro.

Per Inori Stockhausen, da perfezionista qual era, ha indicato ogni dettaglio, dalla disposizione degli strumenti alla realizzazione della struttura; addirittura è indicata la distanza da rispettare tra un bullone e l’altro. L’orchestra è rigorosamente distribuita alla destra e alla sinistra del palcoscenico “sopraelevato”, in modo che gli strumenti dal timbro più acuto si trovino a destra del direttore (ponendosi in fronte al palcoscenico), mentre quelli più gravi sulla sinistra.

Dopo un incipit faticoso – forse per la musica, più ostica nella parte iniziale, forse per la danzatrice fin troppo rigida – la seconda parte della serata ha preso il sopravvento. Incredibile, coinvolgente. Una performance d’impatto, un tutt’uno di musica, immagine, luci, movimenti, danza. Marco Angius, ormai punto di riferimento per tutto ciò che è contemporaneo e sperimentale, ha guidato l’Orchestra di Padova e del Veneto (in gran forma, reattiva) sapientemente, proponendo una lettura precisa della partitura che ha restituito tutta l’unità e la grandezza del pezzo di Stockhausen.

Difficilissima la parte della danzatrice, Roberta Gottardi, che dopo un inizio rigido e non sempre precisissimo è riuscita a sciogliersi, deliziando il pubblico con un’interpretazione fatta di gesti, movimenti del volto e di mani, estremamente coinvolgente nella sua semplicità.

Insomma, una proposta che lascia il segno. Peccato per un piccolo neo iniziale, con un’introduzione prevista di circa un quarto d’ora (nella quale, dopo un commosso ricordo a Mario Bortolotto, interessantissimo è stato l’intervento di Kathinka Pasveer, che con Stockhausen ha lavorato una vita e interprete di Inori dal 1989) che in realtà si è protratta per oltre cinquanta minuti; cosa che ha indisposto una certa fetta di pubblico, portando alcuni ad abbandonare la sala ben prima del previsto.

La serata è poi proseguita con il live dei Demdike Stare. Il duo di Manchester, composto da Sean Canty e Miles Whittaker è ormai un riferimento nel mondo dell’elettronica. Per l’occasione i due hanno proposto «un tributo alla lunga storia della musica e dei musicisti di sperimentazione nell’Italia del Novecento», come si evince dal programma di sala. L’impressione è che forse l’ambiente (meraviglioso ma con un pubblico diverso da quello cui i due sono forse abituati di solito) li abbia intimiditi?, irrigiditi?, e che il meglio sia emerso nella parte finale.