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Partiamo con lo sgombrare la strada dai giudizi non sempre benevoli all’Attila come opera in sé.

Se molta critica musicale la annovera tra le opere “brutte” di Verdi (seguendo la lettura di Massimo Mila), non si può prescindere dagli “anni di galera” per una completa conoscenza di questo immenso autore. Il Maestro Chailly ne ha fatto una battaglia personale partendo dalla Giovanna d’Arco (ma ben prima con I masnadieri e i Due Foscari), in un percorso che dovrebbe approdare al Macbeth negli anni a venire. È un’opera certo non perfetta, con un libretto a episodi che mescola storia e amore in forma di rapsodia più che di narrazione e una musica tacciata di “cabalettismo” sfrenato. Da un punto di vista puro di ascoltatore è innanzitutto godibilissima, da un punto di vista più prettamente musicale è uno scrigno di tutti gli ingredienti del Verdi che verrà.

La direzione di Chailly la fa rifulgere. La trasparenza dell’orchestra sempre a sostegno del canto, il contrappunto dei fiati a dar colore e completare la frase, la ricerca della bellezza del fraseggio più che l’impeto della cabaletta. Se prologo e primo atto sono in qualche modo trattenuti rispetto a certe consuetudini “garibaldine”, il secondo e il terzo atto trovano la loro forma drammatica in una visione d’insieme compatta con i numeri che fluiscono uno nell’altro senza cesure.

La morbidezza dell’entrata degli archi nel preludio ad assumere una dimensione sinfonica, la scena del Rio Alto e il primo quadro del primo atto con la meravigliosa scena di Odabella sono momenti di grandissimo pathos e intensità. Un quartetto di cantanti strepitosi nel canto e nella dizione e una regia di forte impatto visivo hanno reso quest’Attila uno degli spettacoli di inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala più completi degli ultimi anni.

Ildar Abdrazakov è un Attila maestoso e imponente nel canto come sulla scena: voce stupenda in ogni registro, controllo perfetto, emissione impeccabile. Le parole scolpite, i gesti e gli sguardi memorabili. Un gigante. Saioa Hernandez, al suo debutto scaligero, è la vera sorpresa. Una voce d’altri tempi, non di velluto ma di quelle che emozionano già solo per il colore. Emissione decisa, sicura in ogni tessitura, impetuosa! Che Lady Macbeth potrebbe offrirci… Dell’eccellenza di Fabio Sartori già sappiamo bene e qui si conferma come Foresto di grande levatura nella voce più nell’adesione alla visione registica. George Petean è un Ezio importante, un grande baritono per la prima volta alla Scala che speriamo di riascoltare presto.

Arriviamo alla regia dell’atelier Livermore. La collaborazione ormai consolidata tra il regista Davide Livermore, lo studio Giò Forma, Gianluca Falaschi, Antonio Castro, D-Wok ha ormai assunto la forma di un atelier teatrale che concepisce interventi scenici e drammaturgici in cui il lavoro dell’uno si integra in quello dell’altro senza soluzione di continuità, in maniera simbiotica. L’uso di luci, scenografie, tecnologie, recitazione vanno a costruire un linguaggio che racconta una storia in cui nulla è gratuito. Qui è la storia senza tempo del potere che si appropria della vita delle persone per stritolarle con tutta la sua violenza e le sue depravazioni. Livermore sceglie di raccontare questa storia per grandi quadri, legati dall’atmosfera e dalle tinte livide ma quasi autonome con continui rimandi a riferimenti storici, artistici, cinematografici. La vicenda è traslata in una metafisica Seconda Guerra Mondiale in cui si intrecciano Resistenza, Roma Città Aperta, postriboli berlinesi, Portiere di Notte, affreschi di Raffaello, rovine dell’Impero Romano.

Il fermo immagine dell’apertura di sipario, il pugnale di Attila che taglia la mano di Odabella, l’apertura del primo atto con Odabella che canta la scena e romanza mentre sullo sfondo è proiettata l’emozionante ricordo dell’assassinio del padre, la scena di Papa Leone con l’affresco di Raffaello riportato tel quel in scena, il bordello in cui le masse vengono mosse con maestria attorno ai protagonisti come infiniti carillon del vizio, l’atto terzo in cui Odabella appare e scompare dietro una vetrata spezzata a sottolineare il dialogo tra Foresto ed Ezio. Suggestioni che compongono la storia scena dopo scena.

Infine un’orchestra infallibile che ormai ha preso sotto Chailly un colore verdiano molto preciso e, soprattutto, un coro di cui non si può finire di cantar le lodi. Il migliore al mondo.

Foto credit: Brescia Amisano