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Opera o oratorio laico? Pamphlet o dramma?

CO2, l’opera di Giorgio Battistelli data in prima mondiale al Teatro alla Scala in occasione di EXPO 2015, ci porta a fare molte riflessioni. Sul contenuto: il fatto che La Scala abbia il coraggio di portare in scena tematiche così scottanti è un merito che solo una struttura pubblica può permettersi. Sulla forma: cosa è l’opera oggi? Ha senso ancora parlare di drammaturgia e di Ton-Wort-Drama o forse l’evoluzione della forma operistica si apre oggi a nuove forme in cui il racconto viene sostituito da una rapsodia di suggestioni supportate da una trama musicale?

In questo caso non ci troviamo davanti a un vero racconto, ma davanti a una serie di quadri o se vogliamo a un oratorio che ora predilige la quotidianità e caducità umana e ora invece l’ispirazione della trascendenza. È un lavoro escatologico, più che ecologico, che soffre di un’ipertrofia di messaggi e di linguaggi e che attribuiamo principalmente alla sua gestazione. Troppi librettisti, troppi registi, troppi apporti creativi hanno dato vita a una narrazione eccessivamente ricca a scapito della linearità del pensiero.

La trama scorre su tre linee parallele. La storia dello scienziato Adamson (figlio d’Adamo – ancora una volta una sottolineatura didascalica di troppo) e della presentazione del suo lavoro che illustra i disastri causati dall’uomo nei confronti del riscaldamento globale. Le grandi scene che rappresentano una contemporaneità cieca che ora si affanna in aeroporti che si trasformeranno in galere, ora si accapiglia nella conferenza di Kyoto senza arrivare a una soluzione, ora si arrabatta in supermercati templi del Dio consumo. La narrazione filosofico-religiosa che miscela genesi, religioni orientali, apocalisse e tesi new age. Tutto trova un comune denominatore nella corsa alla distruzione e nella soluzione scenica di una gigantesca cornice che inquadra il boccascena come quella di una TV al led. Adamson in tutto questo è protagonista, narratore e coreuta.

In questa congerie di simboli e pensieri il vero filo conduttore è la musica. Densa e complessa, si dipana e ci accompagna con una ricchezza infinita scena dopo scena, attingendo da linguaggi diversissimi che vivono contemporaneamente nella fitta trama. Particolarmente interessante è l’uso della voce. Nella recitazione, nel declamato, nel canto spiegato, nella melodia. Un esercizio raffinatissimo che va oltre il semplice eclettismo grazie a una sincerità e autenticità di scrittura che fanno superare il rischio del gioco intellettuale diventando linguaggio personale dell’autore.

Il giovane direttore d’orchestra Cornelius Meister è bravissimo nel reggere i diversi piani e nel sottolineare le raffinate architetture insieme a un’orchestra che anche nel contemporaneo si muove con estrema disinvoltura. Il cast di solisti (19!) è tutto di ottimo livello, con un eccezionale Anthony Michaels-Moore nel ruolo del climatologo Adamson.

Robert Carsen, regista per cui ho particolare predilezione, si muove con grande mestiere in un terreno sdrucciolevole prediligendo l’effetto dei singoli quadri a una idea forte che riesca a dare compattezza narrativa al ricco materiale che si è trovato per le mani.

Direzione:

Ian Burton
libretto

Cornelius Meister
direttore

Robert Carsen
regia

Paul Steinberg
scene

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