der-rosenkavalier

«Bella gerant alii, tu felix Austria nube», «Gli altri si occupino pure di guerreggiare, tu Austria felice sposati».

L’Austria di Maria Teresa. Un’Austria felice e onnipotente ben diversa da quella di Cecco Beppe, che da lì a breve avrebbe visto la fine dell’Impero. Quella di Strauss (che Austriaco non era) e di Hofmannsthal (che aveva la nonna di Rho). Il Cavaliere della Rosa è un Cherubino in salsa freudiana, la Marescialla una Contessa d’Almaviva che si guarda allo specchio un secolo più tardi e scopre che la sua bellezza non è per nulla sfiorita. La maturità le consente, però, di capire che sarà a breve costretta a passar di mano. La nobilissima Principessa di Werdenberg, null’altro è che l’Austria che avvicina al tramonto della sua epoca d’oro.

I walzer trasfigurati e disincarnati che punteggiano l’opera dall’inizio alla fine sono l’ultimo anelito di bellezza. Gigantesche proiezioni in bianco e nero delle facciate e dei saloni della Hofburg, viali dei parchi viennesi che si perdono nella nebbia, una porta rococò, uno specchio e pochi elementi art decò che si presentano timidi sulla scena. Un Prater, il parco pubblico fra i più grandi e famosi di Vienna, che assomiglia a una macchina infernale su cui campeggia una balena meccanica diventa il simbolo di un mondo che implode nel ridicolo e che non resta che osservare fuggendo su una limousine sulla quale nobiltà e borghesia sono ormai confusi e conniventi.

Uno spettacolo di rara eleganza, dalla recitazione e dalle luci studiatissime quello di Harry Kupfer che gioca sulla fedeltà estrema al libretto e sul continuo rimando alla Vienna del 1911, nella quale l’opera debuttò. Un’opera da camera con più di 30 personaggi, una commedia che ha il sapore amaro della malinconia e della tragedia che incombe.

La musica di Strauss è un meccanismo che intreccia lo spessore orchestrale ad aree di acceso lirismo, intimità che si accende a passione. Zubin Mehta, viennese d’adozione, ha affrontato il Rosenkavalier solo in tarda età (debuttò a Firenze nel 2012) e lo fa, anche in questa occasione, con la sua consueta attenzione ai colori orchestrali, con un determinismo narrativo che guida il dipanarsi dell’azione fino alle note finali mai sentite scandite con tanta assertività. Una viennesità incline più alla precisione asburgica che alle svenevolezze postromantiche, che guarda con favore più alle complessità novecentesche che alla ciprie e ai belletti dei secoli precedenti.

La Marescialla della Stoyanova è maestosa e sublime nella signorilità, nella presenza scenica e nel colore vocale. Infallibile e potentemente umana mai dolente né rassegnata. Consapevole, piuttosto. Altrettanto impressionante la precisione e la padronanza del Barone Ochs di Groissböck, eccellente artista e cantante che rifugge l’impostazione puramente caricaturale e che preferisce il tono dell’ingenuità a quello della volgarità. Freddo, distante e un po’ impacciato l’Octavian della Sophie Koch, con acuti che tendono alla fissità. Corretta e gentile la Sophie di Christiane Karg. Compagnia di canto molto ben assortita nel complesso. Uno spettacolo di altissimo livello.

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Produzione Festival di Salisburgo

Direttore
Zubin Mehta

Regia
Harry Kupfer

Scene
Hans Schavernoch