Die Soldaten

Mi sono affacciato sull’abisso e ho avuto paura di precipitare.

Il Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann alla Scala è stata una delle esperienze più profonde e intimamente traumatiche che mi sia capitato di avere in teatro. Un’opera devastante per il corpo e per lo spirito, tanto da torcere le budella e soggiogare il cervello. Al punto di star male, al punto di voler fuggire perché non si riesce più a reggere. Atroce, insopportabile, senza speranza.

Quando ci si trova davanti a qualcosa di così grande e così forte da sconvolgere e minare il proprio io più profondo, ben al di là della comoda soglia del dubbio, ci si rende conto di essere davanti a qualcosa che è più arte dell’arte. Un capolavoro. Un capolavoro assoluto, non solo del Novecento e non solo del teatro musicale.

Se lo spirito dell’arte risiede nell’urgenza del dire, qui di urgenza ce n’è davvero parecchia. Così tanta, che forse non ne vedevamo in quantità (e qualità) tale dai tempi di Bach o di Michelangelo. Un compendio dell’intera storia della musica, da Palestrina al jazz, incardinato su una trama dodecafonica rivista in un’ottica personalissima.

Un Alban Berg dopato da una conoscenza musicale monumentale e con una libertà creativa che supera le regole di genere, di qualsiasi genere. E se Berg è nella musica lo è anche nel libretto, derivato da un testo tardo settecentesco di Lenz ma scritto da Zimmermann stesso. Un concentrato di Wozzeck e Lulu portato a saturazione. I soldati, il Caporalmaggiore/Desportes, la prostituzione e persino Marie. Il nome della protagonista è lo stesso di quella di Wozzeck. La scena del baccanale di soldati e meretrici è in Die Soldaten come in Wozzeck. Marie diventa prostituta come Lulu. Entrambe, nella speranza di salire i gradini della scala sociale, scendono. Scendono fino al più profondo dei baratri. La morte fisica per Lulu, la perdita di se stessa per Marie. Un poema della corruzione morale che passa dalla corruzione della carne che diventa putrida, che genera vermi, che ha come unica soluzione il nulla. Raccontare la trama o descrivere la musica sarebbe ingiusto. Non ho parole efficaci abbastanza per farlo.

La regia di Alvis Hermanis riesce a restituire questo gorgo di pensieri, di sentimenti, di azioni in maniera emozionante. Nella scenografia, nei gesti, nelle luci, nelle immagini. Lo spettacolo, nato per il Festival di Salisburgo (del 2012) è stato pensato per la Felsenreitschule (una scuola estiva di cavalleria del ‘600, ora teatro) come azione scenica in situ. L’adattamento per La Scala ci porta direttamente nello stesso luogo, riproducendone quasi fedelmente le fattezze e i suoi molti archi e consentendo cinque piani differenti di narrazione simultanei. I due livelli verticali, il palcoscenico diviso in due parti dagli archi in uno spazio verso la platea e in uno più interno che, coperti da vetrate, diventano schermi su cui proiettare. Un vero e proprio omaggio filologico, che il regista rende all’autore nel rispetto della concezione di Zimmermann della circolarità e simultaneità del tempo.

La recitazione è meticolosa, quasi maniacale, l’uso dei simbolismi continuo e non sempre immediatamente comprensibile.

Ingo Metzmacher è un direttore semplicemente straordinario nel restituire con amore e devozione l’infinita complessità della partitura. Nel cesellare la filigrana dell’orchestra, nel gestire le sonorità tra buca e palcoscenico e nel mantenere la tensione narrativa dritto fino al finale inevitabile e ineluttabile.

Ogni voce è perfetta nel canto e nello sprache ma la Marie di Laura Aikin è addirittura superba. Nelle finezze come nel suo perdersi progressivo fino all’urlo finale che ci lascia attoniti, atterriti (complice il coup de theatre registico di crocefiggerla puttana e disperata – disconosciuta, violentata nell’intimo, abbandonata da tutti e soprattutto da se stessa ma, purtroppo per lei, ancora viva).

Si esce dal teatro senza parole, con le gambe pesanti, con l’animo ferito ma senza lacrime perché neanche la compassione ci viene lasciata.

Esecutori:

Orchestra del Teatro alla Scala

Ingo Metzmacher

direttore

Alvis Hermanis

regia

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