Don-Carlo-Regio-Parma

Una scena del film del 2011 Intouchables (in italiano Quasi amici) mostra Philippe, ricco e colto tetraplegico, seduto in un balcone dell’Opéra Comique in compagnia del suo strampalato badante Driss, ex galeotto cresciuto nella banlieue parigina.

Si abbassano le luci e sul palcoscenico compare il protagonista del Freischütz di Weber, il cacciatore Max: vestito di uno sgargiante costume verde, questi attacca il dolente recitativo “Nein, länger trag ich nicht die Qualen” (“No, non sopporterò più a lungo gli strazi”). Driss sgrana gli occhi, si fa serissimo, e poi esplode in una sonora risata: «È un albero! È un albero che canta!». A tali parole Philippe trattiene a stento le risa, e mentre gli altri spettatori, infastiditi, reclamano silenzio, Driss commenta incredulo: «Ed è pure in tedesco! Voi siete matti…».

Di irresistibile comicità, la scena descritta sembra fatta apposta per illustrare uno dei cardini su cui poggia l’opera lirica: il cosiddetto “patto finzionale”, ovvero quell’implicito accordo fra spettatore e spettacolo per mezzo del quale il primo decide di prendere per vere caratteristiche del secondo che risulterebbero inaccettabili se fossero estrapolate dal loro contesto. In assenza di tale patto, non può entrare in funzione quella che Coleridge definiva “sospensione di incredulità”: lo spettatore, cioè, mantiene lo stesso sguardo incredulo nei confronti delle finzioni che utilizza nella vita reale, e trova perciò anormali i numerosi artifici su cui lo spettacolo si regge. È questo il caso di Driss, che non può far a meno di considerare una ridicola follia l’attore vestito in modo eccentrico che si esprime cantando.

Chiunque abbia assistito anche una sola volta alla rappresentazione di un’opera ha sperimentato (in modo più o meno consapevole) non solo l’importanza del “patto finzionale” per il buon funzionamento dello spettacolo, ma anche la sua estrema fragilità. Ad esempio, può accadere che di fronte ai lamenti strazianti di una Violetta morente si provi un’empatia tale da arrivare alla commozione, e poi, per un nonnulla (un gesto mal misurato della cantante, una stonatura dell’orchestra, uno starnuto in platea…), l’incanto si rompa, e di colpo la situazione appaia tanto assurda da risultare comica – e allora il riso dissacratorio è pressoché inevitabile.

Per colpa di una catena di imprevisti al limite del fantozziano, l’ultima recita di Don Carlo andata in scena al Teatro Regio di Parma nell’àmbito del ricco Festival Verdi 2016 ha confermato una volta di più quanto sia delicata l’impalcatura che rende credibile uno spettacolo d’opera. Dopo una decina di minuti dalla levata del sipario Vladimir Stoyanov, interprete del ruolo di Rodrigo, accusa un malore che impone la momentanea sospensione della recita; rientra giusto il tempo necessario per completare il suo intenso duetto con Don Carlo e viene sostituito in corsa da Gocha Abuladze: cinto da un abito raffazzonato all’ultimo secondo, il giovane baritono georgiano porta a termine la rappresentazione con carattere, nonostante qualche giustificabile esitazione.

Dopo Rodrigo, anche Don Carlo ha il suo bel daffare. Alla fine del secondo atto José Bros – fino a quel momento un buon Infante di Spagna, dotato di una voce squillante inficiata da fastidiose inflessioni nasali – inizia a farcire la sua parte di sommessi colpi di tosse che non lasciano presagire nulla di buono: puntuale come il Natale, prima dell’inizio del terzo atto il direttore del teatro Anna Maria Meo comunica che il tenore ha deciso di proseguire la recita nonostante un’indisposizione. Come vuole l’adagio, è ovvio che non ci sia due senza tre. E così, durante la magnifica aria O don fatale, o don crudele, il volto e l’abito della principessa Eboli si coprono improvvisamente di sangue: non si tratta di un effetto speciale, bensì di vero sangue che esce copioso dal naso di Marianne Cornetti. Senza lasciarsi impressionare, il giunonico mezzosoprano porta comunque a termine il brano con la stessa abbondanza di voce che aveva caratterizzato tutta la sua interpretazione.

Si può ben immaginare quanto tutti questi incidenti abbiano messo in imbarazzo non solo gli esecutori, ma anche il volenteroso spettatore che, a causa dei numerosi viaggi andata-ritorno fra la Parma del 2016 e la Spagna del Cinquecento, si è trovato costretto a rinnovare di continuo il suo “patto finzionale” con lo spettacolo.

Sarebbe comunque ingeneroso limitarsi a raccontare soltanto le sfortune del Don Carlo parmigiano (presentato, per inciso, nella tradizionale versione in quattro atti del 1884). Per tanti versi, infatti, lo spettacolo ha funzionato bene. Le grandi superfici marmoree ideate dallo scenografo Maurizio Balò suggerivano un clima di regale austerità perfettamente in linea con la tinta del dramma. Daniel Oren ha guidato con nerbo e determinazione i cantanti e, fra sbuffi e pungolate, ha saputo ottenere dalla Filarmonica Toscanini precisione ritmica e notevole qualità dell’impasto sonoro.

Oltre a non cader vittime di malanni, Serena Farnocchia e Ievgen Orlov, nei panni rispettivamente di Elisabetta e del Grande Inquisitore, hanno scolpito in modo convincente i loro personaggi, mentre Michele Pertusi, al debutto nella parte di Filippo II, è riuscito a sfoggiare una prova superlativa sia per proprietà vocale che attoriale.

La bontà dello spettacolo è stata peraltro sancita dai convinti applausi di un pubblico numeroso e internazionale. Un pubblico che, se leggesse le elucubrazioni di chi scrive, forse, alla moda di Driss, commenterebbe: «Questo è matto…».