Don-Carlo-Teatro-Scala

Un racconto di solitudini. Una storia di atti mancati. Anche le promesse d’amore o di amicizia sono destinate a naufragare. Tutte. Don Carlo è il poema dell’infelicità umana.

Carlo, Filippo, Elisabetta, Eboli ma anche l’Inquisitore sono travolti dalla storia, dagli eventi, dal fato, dalla necessità, da un Dio vendicator (come Verdi ci ricorderà nell’opera successiva, l’Otello). Non c’è spazio per la speranza neanche con l’apparizione finale del fantasma di Carlo V. È il racconto dell’umanità, vista attraverso l’occhio dei singoli protagonisti e delle loro angosce, più che attraverso la prospettiva storica e politica. Don Carlo è un’opera di grande bellezza e complessità musicale e drammaturgica. È una rarità poterla gustare nella sua versione in cinque atti. Tralasciando le questioni di natura più strettamente filologica, vedere l’opera nella sua interezza, fa capire la necessità drammaturgica di quello che più che essere il primo atto è di fatto un prologo denso e pieno di musica meravigliosa.

La lettura che ci dà Myung Whun Chung del Don Carlo è raffinatissima e per questo ancor più terribile proprio perché lo scavo della partitura ci porta ancor più nelle solitudini dei personaggi. Una sola scena per tutte: lo struggente e commovente Ella giammai m’amò del quarto atto. Mai visto un Filippo così afflitto e affaticato. Non c’è ombra di protervia, solo disperazione. Non vorrebbe governare ma solo poter amare, vivere.

Nelle scene di massa come nei momenti più intimi, il Maestro lavora sui particolari come elementi fondamentali non solo alla partitura ma soprattutto al dramma. Il suono è sempre compatto eppur trasparente con grande attenzione all’equilibrio tra orchestra e palcoscenico. In ogni istante c’è una grande attenzione alla riflessione e al pensiero. Azione scenica e musicale sono intimamente congiunte, non in una corsa drammatica verso il finale ma in un trattenuto dolore parola per parola, nota per nota. La compagnia di canto fa proprio il disegno del Direttore e contribuisce alla complessiva omogeneità dello spettacolo pur con sensibilità differenti.

Ferruccio Furlanetto disegna un Filippo dall’umanità intensa e disperata nell’amore per Elisabetta e nell’affetto per Carlo e per Posa. La voce increspata dal tempo contribuisce a dare alla sua interpretazione un’autenticità davvero rara. Carlo è un Francesco Meli come al solito sorprendente per vitalità, proprietà d’interpretazione e doti vocali. L’Elisabetta di Krassimira Stoyanova cresce di atto in atto fino al quarto atto con un Tu che le vanità e un duetto d’addio di grande partecipazione e sicurezza vocale. Simone Piazzola è un Rodrigo giovane, sicuro e autorevole, potenzialmente uno dei Posa migliori per gli anni a venire. Ekaterina Semenchuk ci mostra una Eboli più a suo agio nella frivolezza che nel dramma, con dizione tornita e una voce dal bel colore. L’Inquisitore di Eric Halfvarson alterna momenti di intenso pathos ad altri in cui il controllo vocale prende il sopravvento sull’interpretazione.

La regia, sempre corretta e aderente al libretto, combina istanti di grande bellezza ad altri così essenziali da risultare generici. Il monacale appartamento di Filippo con l’efficace gioco di luce del mattino che sorge a illuminare la disperazione del Re è forse il momento di maggior intensità. Uno spettacolo che verrà ricordato a lungo soprattutto per la direzione del Maestro Myung Whun Chung.

Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini
(Edizione integrale della versione in 5 atti a cura di U. Günther e L. Petazzoni; Editore Casa Ricordi, Milano)

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione del Festival di Salisburgo
Direttore: Myung-Whun Chung
Regia: Peter Stein
Scene: Ferdinand Woegerbauer