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Ci sono regie che non si dimenticano. Falstaff, insieme a pochissime altre (forse qualcuna di Mozart e di Strauss), è un’opera che investiga l’animo dell’uomo nel suo profondo.

Una pièce che apre il secolo a venire, le sue domande, i suoi turbamenti e lo fa con una delicatezza, con un sorriso accennato e stranito come nessun’altra. È un’opera che per la sua complessità letteraria si avvicina più al mondo della prosa che a quello del teatro musicale. Tra le molte meravigliose regie di Falstaff viste negli ultimi due decenni, quella di Damiano Michieletto è senz’altro quella che più profondamente riesce a entrare in questo spirito (oltre che nei sentimenti di Sir John).

Michieletto disegna una linea narrativa doppia. Il tutto avviene in una normale giornata all’interno della Casa di Riposo per artisti Giuseppe Verdi di Milano, ultima opera del Maestro. Questa cornice consente di restituire al racconto l’unità aristotelica (che era pensata per la tragedia e non per la commedia) e di aggiungere un livello di pensiero all’introspezione psicologica del personaggio. Sir John è un ospite della Casa di Riposo, un artista anziano che una sera si addormenta e inizia a sognare. È un sogno che è una riflessione sui suoi appetiti, sui suoi desideri, le sue sconfitte, la sua speranza di redenzione, insomma la sua vita.

I personaggi attorno a lui sono fantasmi che piombano in scena dai finestroni della sala in cui si è accasciato su un divano e sul quale rimarrà per l’intera durata dell’opera. Sono i fantasmi dei suoi sentimenti, i moti della sua anima. La vicenda dell’opera diventa allora una lunga parentesi dal suo assopirsi al suo risveglio. Un racconto dai colori vivaci e leggeri e pensosi e malinconici al tempo stesso.

La regia di Michieletto è meravigliosa e non solo per la creazione di una sovrastruttura che in verità sovrastruttura non è, bensì una modalità per addentrarsi nei meandri della psiche del personaggio e per la raccontare la sua storia. La cura della recitazione (veramente da teatro di prosa), i piccoli gesti (la grazia del saluto finale ai personaggi da parte di Falstaff), le luci (quella della luna che buca le finestre, ad esempio), i piccoli trucchi (la farfalla che vola), i colpi di teatro (il lenzuolo che tutto avvolge del finale secondo atto o la foresta fatta da piante ornamentali da salotto), la capacità narrativa di alcune idee (il funerale e sotterramento di Sir John), il dettaglio delle scenografie sono alcuni degli elementi degni di nota di uno degli spettacoli più belli visti negli ultimi anni.

La direzione di Zubin Mehta è estremamente attenta ai colori e al confronto con il palcoscenico con una predilezione per l’analisi più che alla drammaturgia. L’Orchestra è sempre più sorprendente per duttilità e precisione.

Dire che Ambrogio Maestri è Falstaff è una banalità da cui non si può sfuggire. La presenza scenica, la tornitura della parola, la musicalità fanno di lui il più grande interprete di questo personaggio degli ultimi trent’anni. Tutti cantano benissimo e soprattutto interpretano con rara consapevolezza dello spazio scenico. Massimo Cavalletti e Carmen Giannattasio sono un Ford e un’Alice particolarmente efficaci.