Falstaff

Falstaff è, forse, l’opera più completa mai scritta. Falstaff è puro teatro, parola rotonda che diventa musica e si concretizza in azione. L’epifania più vera e pura del genio teatrale e musicale verdiano.

Se Wagner fatica a portare a compimento il suo progetto di teatro totale per un eccesso di note e di intelletto, Verdi vince la sfida giocando la carta dell’essenzialità. Una costruzione complessa, mai complicata, meticolosa eppur leggera. E tutto ciò poteva accadere in commedia più che in tragedia. Questo, Verdi lo apprende probabilmente da Mozart e le citazioni dei meccanismi della trilogia dapontiana (Le nozze di Figaro, il Don Giovanni e Così fan tutte) sono ovvie. Ma è un uomo ottuagenario a scrivere e ormai prossimo al Novecento. Conosce Manzoni, forse anche i romanzieri francesi. Alla macchina teatrale e al gioco unisce allora lo scavo psicologico per mettere a nudo il re, per raccontare la Comédie Humaine. Falstaff è lo specchio delle nostre fragilità, delle nostre paure, della nostra vanità, della nostra ingordigia. La costruzione musicale è adamantina. Qui ricorre a una struttura degna di Bach, a una purezza degna di Bellini, ma soprattutto alla propria esperienza. Qui c’è tutto Verdi! Le melodie, la vocalità, le agogiche, le frasi. Ma sono usate come ingredienti sublimati. È distillato purissimo.

Gatti e Carsen lo sanno benissimo e costruiscono uno spettacolo meticoloso, attento, godibile.
Carsen trasferisce l’azione in un’Inghilterra degli anni ’50. La recitazione è strabiliante, la cura dei dettagli impressionante, la verve continua, la dolcezza commovente. Sembra di essere in un film di Wes Anderson o in certe regie di Ponnelle. Il freeze cinematografico dell’incontro amoroso di Nannetta e Fenton nella sala del ristorante nel primo atto, la meravigliosa cucina colorata del secondo atto con il rallenti della caccia a Falstaff, l’ombra di Falstaff all’arrivo nel bosco con la luce fredda e tagliente che dona doppia prospettiva alle corna di cervo, la danza dei tavoli e sui tavoli del finale sono pezzi di teatro indimenticabili.

Daniele Gatti lavora sulla partitura in maniera maniacale a scovare relazioni, a sezionare suoni, a isolare cellule melodiche. Suoni aspri dei fiati piombano all’improvviso a zittire le dolcezze dei legni o a interrompere i velluto degli archi. Un Falstaff assolutamente diverso da qualsiasi altro, conscio del racconto teatrale quanto della profondità del pensiero musicale. Qualche disallineamento tra buca e palcoscenico nel finale del secondo atto e qualche imperfezione negli attacchi non toccano il valore assoluto di questa performance di direttore e orchestra. La compagine vocale è affiatata, adatta a restituire lo scavo nella parola e nel gesto, sempre appropriata. Buona la prova di Irina Lungu nel ruolo di Nannetta, sostituta di lusso dell’ultimo minuto. Alaimo è un Falstaff strepitoso, come forse nessun altro oggi. Nella presenza scenica, nella vocalità, nel fraseggio.

In scena fino al 4 novembre