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Dopo otto anni di assenza dai palcoscenici parmigiani, di fronte a un pubblico numerosissimo e caloroso, Giovanna d’Arco torna a guerreggiare nella lizza del Festival Verdi.

Sulla carta, gli ingredienti per uno spettacolo di rilievo ci sono tutti: un titolo grandioso e sperimentale di un Verdi ancora giovane ma già celebre; una messinscena co-firmata da Peter Greenaway, mostro sacro del cinema europeo contemporaneo; un teatro maestoso come il Farnese, che dopo alcuni anni riapre le porte all’opera lirica.

Il colpo d’occhio all’ingresso in sala è grandioso. Il pubblico occupa una lunga platea inclinata che guarda le secentesche gradinate lignee del teatro; lo spazio ai piedi di queste è suddiviso fra l’orchestra e una pedana rotante che funge da palcoscenico. L’utilizzo invertito del Farnese – già praticato in occasione di concerti, ma mai per spettacoli d’opera – è la chiave di volta su cui si regge l’allestimento.
La messinscena utilizza infatti la cavea come superficie sulla quale proiettare immagini, video e luci laser. L’effetto complessivo è sorprendente, ma sono diversi i particolari che non convincono: il frequente ricorso a figure simboliche (per esempio un’incombente corona insanguinata) appare un po’ ingenuo; la proiezione di celeberrimi dipinti della Madonna lascia sconcertati se si considera che viene incomprensibilmente adottata la versione vulgata del libretto, che censura ogni riferimento esplicito a Maria Vergine; l’esibizione di fotografie che ritraggono bambini sfuggiti alle guerre contemporanee appare del tutto gratuita e decontestualizzata.

A fronte di un grande dispiego di tecnologie, la regia è tanto minimale da risultare povera: i movimenti dei cantanti e del coro sono asettici, e non è affatto chiara l’utilità delle due ballerine che affiancano Giovanna per impersonarne – secondo la locandina – il volto innocente e quello guerriero. Insomma, la messinscena ideata da Greenaway in collaborazione con Saskia Boddeke possiede una forte carica visiva, ma rinuncia a mettersi al servizio della musica e del dramma: di conseguenza lo spettacolo si appiattisce, e a lungo andare annoia.

Certamente non favorita da un’acustica difettosa, anche l’interpretazione musicale desta qualche perplessità. Nel ruolo eponimo, il soprano Vittoria Yeo affronta con discreta facilità i virtuosismi della parte di Giovanna, ma il suo timbro leggero non le consente di scolpire a dovere la complessa fibra drammatica del personaggio. Di contro, convincono Luciano Ganci e Vittorio Vitelli: il primo delinea un tormentato Carlo VII, dalla voce robusta e squillante; il secondo, nei panni di Giacomo, dispiega un timbro pieno e pastoso, volume abbondante e fraseggio pulito. Ottimo per equilibrio il Coro del Regio, preparato da Martino Faggiani. Sul podio, Ramon Tebar ha il merito di mantenere la quadratura musicale di uno spettacolo assai complesso a causa della dislocazione tutt’altro che tradizionale degli organici artistici. Tuttavia, sono rare le occasioni in cui riesce a ottenere dall’orchestra dei Virtuosi Italiani colori cangianti e trame raffinate.