Alan-Gilbert-Filarmonica

E un’altra stagione della Filarmonica comincia.

Gatti, Chailly, Mehta e soprattutto Haitink con il Requiem Tedesco di Brahms ne saranno grandi protagonisti. Il concerto di apertura è stato diretto da Alan Gilbert, figura poco conosciuta in Italia e dalla carriera particolare. Principal conductor della New York Philarmonic, la sua scelta fu ricevuta con commenti di segno diverso: sicuramente giovane e da qualcuno giudicato acerbo. Un nome poco prevedibile per la guida della grande compagine americana che ha avuto il grande merito di portare sullo stage della Avery Fisher Hall la musica contemporanea. La passione di Gilbert di portare il teatro nelle stagioni sinfoniche si è confermata nel suo debutto scaligero con il Castello di Barbablù di Bartok, opera enigmatica dagli echi straussiani e già gravida del pensiero musicale dell’autore ungherese non ancora arrivato però a piena maturità. Un’opera seducente e intrigante per la maniera in cui la storia si dipana e per il modo in cui la musica si sviluppa come compagna della narrazione psicologica tra le brume, i timori, il sangue, la speranza e la morte finale.

Tra curiosità e disobbedienza, la storia di Judit è la vicenda di una donna che cerca la verità anche aldilà del pericolo e che non vuole capire che talvolta la conoscenza è nemica della felicità. Barbablù è quindi solo un attore di un destino cui la protagonista corre incontro rovinosamente. Bassi ostinati, melodie spezzate, dinamiche esagerate costruiscono un percorso in crescendo che precipita all’apertura della settima porta e che sprofonda verso l’oscurità.

Gilbert si trova a suo agio in questo racconto e trascina l’orchestra in una lettura più razionale che emozionale, prediligendo l’attenzione al dipanarsi della trama sinfonica alla tensione drammatica. Buona prova complessiva dell’orchestra e superba performance delle due voci: il mezzosoprano Ildikò Komlòsi (ben nota al pubblico scaligero) e il basso canadese John Relyea che ameremmo rivedere presto a Milano.

La prima parte del concerto parla, purtroppo, di una Sesta di Beethoven abborracciata e imprecisa con tempi velocissimi quasi ad arrivare al più presto possibile alla fine. Una lettura certamente non memorabile che ancora una volta ci fa capire quanto sia difficile restituire senso a questo meraviglioso gioiello. Molte persone del pubblico hanno lasciato il teatro all’intervallo più per fame e impegni mondani che per insoddisfazione. Il primo Novecento musicale spaventa ancora.