filarmonica

Schumann torna alla Scala con una serata tutta dedicata al grande compositore tedesco che prelude a un’integrale delle sinfonie sotto la bacchetta di Chailly.

Sin dai tempi della Concertgebouw e della Gewandhaus, il Maestro non ha mai nascosto la propria predilezione per una delle figure più importanti del Romanticismo tedesco, meraviglioso anche nella produzione orchestrale eppure sempre con un’aura di dubbio e di distinguo da parte di critici e musicisti – un po’ per il suo agire fuori dagli schemi, un po’ perché valutata alla luce delle sue inarrivabili produzioni cameristiche.

È forse per queste presunte imperfezioni che i grandissimi direttori misero mano all’orchestrazione delle opere più e più volte, direttori tra cui c’è stato anche Gustav Mahler. La curiosità di Chailly, così come ci ha permesso di scoprire gli urtext delle grandi opere pucciniane, ci regala questa chicca presentandoci l’Ouverture del Manfred e la Seconda Sinfonia nell’orchestrazione mahleriana.

I grandi direttori italiani (dovremmo forse dire milanesi) – prima Abbado, ora Chailly , ma anche Gatti – hanno un approccio ai grandi testi romantici tedeschi che unisce la grande intensità e trasporto a una visione rigorosa e strutturale delle partiture, pur con tutte le diversità del caso.

Il Maestro Chailly affronta Schumann come un fiume in piena, con un’agogica e una ritmica quasi toscaniniane ma anche con una ricchezza di sfumature che il maestro parmense, nella sua monoliticità, non aveva. Chailly ha la buona abitudine di disegnare programmi di concerto che non sono una sequenza di brani ma che hanno, invece, qualcosa di programmatico. La Manfred Ouverture passa fluida a una velocità vertiginosa, precisa e puntuale ma con la sensazione che si stia assaporando solo un amuse-bouche.

È il Concerto per pianoforte il La, forse il brano più eseguito di Schumann, che ci lascia perplessi. Radu Lupu è uno dei primi cinque pianisti in circolazione, e sin dalle prime note ce lo fa ricordare, ma la sensazione è che la visione del brano tra solista e direttore non sia esattamente la stessa. Chailly sceglie allora di trattenersi e di dare all’orchestra una funzione di supporto, di accompagnamento al pianoforte, mostrandoci uno Schumann molto diverso da quello cui ci ha abituato e che ci farà sentire nella seconda parte del concerto.

L’approccio di Lupu al brano è interessante e persino commovente, ma ci si chiede quanti giovani pianisti sarebbero bacchettati severamente se lo suonassero così. Sceglie una strada intima e sussurrata ma soprattutto libera, tanto libera che ci sembra a tratti che stia improvvisando e che stia seguendo un proprio dialogo interiore con lo strumento e con l’autore. Il suono è meravigliosamente morbido, ma sporco e volutamente poco preciso. Lupu co-dirige l’orchestra chiedendo agli strumenti di spegnersi, di bisbigliare, come sta facendo lui. L’impressione finale è che ci sia un qualcosa di incompiuto, di aperto.

La Seconda Sinfonia è un trionfo pieno e clamoroso. Chailly è travolgente, vigoroso, vitale eppur lucidissimo e strutturale (come nella meravigliosa precisione, quasi da meccanica d’orologio, del secondo movimento o nella follia del gran finale). Un suono turgido e caldo a cui archi e legni contribuiscono in maniera determinante.

Il fatto che negli stessi giorni Chailly, Mehta, Whun Chung, Lupu e Argerich siano stati tutti sotto lo stesso tetto dimostra, ancora una volta, come la programmazione del Teatro alla Scala sia tornata ai vertici mondiali e quanto tutto questo contribuisca al rendimento della compagine orchestrale.