Giovanna-D'Arco

Verdi va in cerca di Verdi e Chailly lo aiuta.

Giovanna d’Arco è un’opera difficile, non brutta, faticosa piuttosto. Innanzitutto per il libretto. Temistocle Solera non è stato né grande librettista né musicista e la sua traduzione in libretto dell’opera di Schiller risulta bislacca. Il buon Temistocle incespica nella narrazione, nella lingua, nella metrica. Se le dicerie su un Verdi terribile con i suoi librettisti avessero qualche fondo di verità, ci si dovrebbe chiedere cosa possa essere successo tra i due in questa occasione. Verdi sembra utilizzare il canovaccio teatrale come una palestra, un terreno su cui sperimentare forme e topoi che in alcuni casi riutilizzerà in futuro, in altri deciderà semplicemente di dimenticare. C’è un’abbondanza di riferimenti donizettiani (soprattutto nel prologo e nel primo atto) che in futuro verranno abbandonati così come un uso del coro, persino esagerato, e che troverà forma compiuta e più misurata in opere come Il Trovatore o La Forza del Destino.

Ma sono le melodie, i rubati, certe armonie e un uso inconfondibile dei legni che ci mostrano un Verdi già maturo e pronto a prove più importanti. Chailly ama Verdi e si diverte anche vistosamente (ride, sorride e balla per tutta l’esecuzione) a trovare una cifra distintiva per l’opera. Analizza punto per punto e cerca il filo conduttore, non facendo dell’opera quello che non è o intellettualizzandola, ma vedendola nella prospettiva del Verdi che verrà, come punto di passaggio di una tradizione che sta prendendo una strada nuova, diversa, individuale: quella di Beppino.

Questo lavoro gli è possibile anche e soprattutto grazie a quei due strumenti eccezionali che si trova in mano: l’orchestra e il coro. Se la tradizione ha un senso, se le compagini hanno una propria linfa segreta, bisogna dire che nessuno sa suonare e cantare Verdi come i complessi scaligeri. Anna Netrebko, Francesco Meli e Carlos Alvarez formano una triade strepitosa per capacità vocali, per stile, per precisione. Capita di rado trovare uno spettacolo in cui tutte le componenti raggiungono tali livelli di eccellenza e di compattezza. Bisogna comunque sottolineare come la performance della Netrebko sia addirittura stellare: la sua intelligenza interpretativa va di pari passo con una voce che negli anni è diventata di bellezza rara; sono lontani gli usignoli senz’anima a cui ci eravamo dovuti abituare negli ultimi tempi, la passione dell’interpretazione e la perfetta dizione si accompagnano a una voce impeccabile nelle agilità e negli acuti e che soprattutto ammalia nel registro grave. Nei prossimi anni sarà sicuramente a suo agio in altri ruoli verdiani più maturi, che ancora non ha affrontato.

Moshe Leiser e Patrice Caurier non sanno cosa farsene del libretto del Solera e quindi decidono di mettere in scena un altro spettacolo. È una regia, per certi versi, anche molto tradizionale: colpi di scena da grand theatre, proiezioni (tecnicamente non ineccepibili), belle luci, cattedrali maestose che compaiono e scompaiono, mimi che invadono la scena travestiti da satanassi. Quello che non convince è il fatto di aver preso una strada radicale e di aver dato della Giovanna d’Arco una lettura che affronta il conflitto interiore tra educazione, religione, sentimento, pulsione erotica ma di non averla poi portata alle sue estreme conseguenze. Una lettura psicologica radicale meriterebbe uno scavo dei personaggi e una recitazione asciutta da teatro di prosa, qui sembra si ricerchi più il pretesto e lo scandalo all’analisi.

Apertura di stagione strepitosa e teatro in totale delirio alla fine della rappresentazione.