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C’è qualcosa di profondamente filologico in questa produzione de La Fanciulla del West. Non tanto e non solo nel recupero della versione originale e nella lettura colta e raffinata di Chailly, quanto nella regia di Robert Carsen.

Amburgo, Parigi, Londra, New York. Puccini viaggiava tanto, raccoglieva suggestioni, incontrava persone e poi sul lago, in solitudine, immaginava mondi lontani e personaggi, sempre donne, spirito dei tempi e dei luoghi. A Londra incontra l’opera di David Belasco e nasce Madama Butterfly. A New York conosce l’autore e nasce Fanciulla.

Fanciulla è un grande affresco musicale e narrativo, un canto corale e una tavola sperimentale. I personaggi, Minnie compresa, sono solo pretesti. Minnie, la Fanciulla del West, nasce sulle assi del palcoscenico e sui teli dei cinematografi di inizio Novecento, prima ancora che tra le foreste dell’ovest e le miniere d’oro. Belasco fu sceneggiatore e imprenditore teatrale e Belasco è protagonista della narrazione di Carsen.

Direttore e Regista sono in perfetta sintonia nel dipingere questa grande opera, troppo spesso sottovalutata e mal rappresentata. L’imbroglio nel lenzuolo, come i napoletani chiamano il cinema, è il protagonista. La scena si apre su una platea di uomini seduti che danno le spalle al pubblico e guardano il film proiettato. È la “Polka”, la taverna di Minnie. Tramonti sui canyon come nei film di John Huston, immagini in cinemascope di fughe a cavallo, la casa della fanciulla in bianco e nero dalle prospettive sghembe e con il sangue che cola dalle pareti come in un film espressionista tedesco, per arrivare al gran finale davanti al botteghino di un cinema o di un teatro della 42esima strada che programma The Girl of the Golden West (proprio come quello di Belasco in cui Puccini ebbe l’occasione di conoscere la pièce).

Grande teatro, insomma, immaginifico e pur fedele allo spirito e alla lettera. In tutta questa meraviglia si sarebbe magari desiderato che i cantanti fossero più partecipi e meno dediti ai vezzi da vecchio teatro d’opera, ma non si può avere tutto.

Chailly compie su Fanciulla lo stesso miracolo che aveva operato su Turandot, forse a un livello ancora più alto. Analizza la partitura in ogni anfratto e fa risaltare la natura sperimentale e contemporanea del compositore. Un Puccini quasi francese di grandissima complessità e raffinatezza che rompe le melodie, gioca con i colori e le atmosfere, incredibilmente vicino a Debussy eppur potentemente italiano, nella sua vicinanza e distanza dall’opera verista. Orchestra e coro sono concentratissimi.

Il canto è purtroppo la nota dolente. Un tenore stentoreo che non ama le sfumature, un soprano con problemi nel declamato e nel passaggio dal registro grave a quello acuto, un baritono che predilige una lettura eccessivamente spavalda e alla fine monocorde del personaggio.

Una Fanciulla del West, comunque storica, come non ci è mai capitato di sentire.