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Capita abbastanza spesso che uno spettacolo tradisca certe aspettative, ma è ben singolare che il tradimento, invece che sbuffi di delusione, generi un balsamico sospiro di sollievo. Questa la bizzarra esperienza vissuta dall’occhio (non dall’orecchio, beninteso!) del critico (leggi: chi scrive) che, accoccolato in una poltrona vermiglia della Fenice di Venezia in un caldo sabato pomeriggio di maggio, assiste all’ultima replica de La favorite di Donizetti.

Nell’attesa dell’inizio dello spettacolo, esausto di torcere il collo e sgranare gli occhi verso il maestoso soffitto celeste che lo sovrasta, il critico suddetto sbircia fra le pagine del programma di sala : dopo essersi domandato per quale strano caso si è deciso di rimpiazzare «La Fenice prima dell’opera» – storica collana di programmi di sala del teatro, esemplare per il suo connubio di rigore scientifico e qualità divulgativa – con una pubblicazione di valore ben più modesto, casca su un’intervista alla regista Rosetta Cucchi, e scopre come lo spettacolo immaginato da quest’ultima ben poco abbia a che spartire con il libretto di Royer, Vaëz e Scribe e con la musica di Donizetti. Un mondo venturo, dominato da una setta di monaci dai riti misteriosi; un mondo dove uomini e donne sono «scientemente divisi», e dove queste ultime, sottomesse, hanno il compito di procreare «una stirpe di guerrieri»; un mondo dal quale riesce a divincolarsi Léonor attraverso il suo sincero amore per Fernand.

Questa La favorite che la regista si propone di mettere in scena. Dopo aver letto tali dichiarazioni, un po’ frastornato, il summenzionato critico si prepara ad assistere a uno spettacolo fratturato in due emisferi non comunicanti: da un lato, il dramma delineato dal testo poetico e musicale; dall’altro lato, quello ideato dalla regista, radicalmente diverso dal primo. Ma (come si dichiarava all’inizio della recensione) alla prova del palcoscenico le premesse non si realizzano. Le scenografie di Massimo Checchetto, dominate da grandi superfici di plastica trasparente, le calibrate proiezioni video di Sergio Metalli, i costumi lineari di Claudia Pernigotti, i movimenti lenti e asettici delle masse e dei protagonisti, suggeriscono sì una generica ambientazione futuristica, ma le situazioni annunciate non trovano realizzazione se non in gesti e oggetti simbolici che devono risultare del tutto inintelligibili per lo spettatore che non sia a conoscenza degli intendimenti della regia. A fronte di tutto ciò, lo spettacolo funziona, non intralcia né il dramma (quello originale) né la musica, e in fin dei conti risulta pure gradevole.

Se l’occhio del summentovato critico è dunque complessivamente (e inopinatamente) soddisfatto, il suo orecchio, nel corso delle tre ore di spettacolo, ha non di rado occasione di esultare. Sul frangente musicale le alte aspettative della vigilia vengono infatti ampiamente esaudite. La bacchetta di Donato Renzetti non lavora di cesello nel rendere i colori e le sfumature della raffinata partitura (per l’occasione si utilizza l’edizione critica curata dalla musicologa statunitense Rebecca Harris-Warrick), ma mantiene un’ottima coesione nei ranghi dell’Orchestra della Fenice, sostiene con solidissimo mestiere il canto, e scolpisce con potenza i vasti tableaux d’assieme. La troupe vocale è eccellente. Con il suo timbro rotondo e giovane, Veronica Simeoni dà vita a una Léonor trepidante e tormentata, spogliata di ogni aura aristocratica; al suo fianco, nei panni di Fernand, un superlativo John Osborn, che sfoggia un canto tanto flessibile quanto solido, impressionante quando si muove nel registro acuto. A chiudere il triangolo amoroso l’Alphonse di Vito Priante, che spicca per nobiltà, pienezza di timbro ed eleganza di fraseggio. Convince il Balthazar di Simon Lim, piuttosto piatto dal punto di vista drammatico ma con una voce dal volume superbo, così come lo squillante Don Gaspar di Ivan Ayon Rivas (che sconta però una pessima dizione francese) e l’eterea Inès di Pauline Rouillard.

All’alzarsi del sipario, il sullodato critico si unisce al pubblico numeroso (ma non numerosissimo) nel tributare applausi generosi allo spettacolo; e prima di perdersi fra calli e sotoporteghi, ponti e canali, esprime il silenzioso desiderio di veder montati più spesso sui teatri d’opera italiani i capolavori (davvero troppo spesso trascurati) del grand opéra francese.