133_K65A3613 Le nozze di Figaro

Le Nozze di Figaro è un’opera rivoluzionaria.

Non solo e non tanto perché, negli anni della Rivoluzione Francese, porta le istanze giacobine in seno alla corte asburgica, ma soprattutto in quanto, prima di Mozart, nessuno aveva osato così tanto con le armonie, con le architetture musicali, con il linguaggio, con la struttura teatrale. Un meccanismo a incastri perfetto, che ancora oggi lascia stupefatti per la freschezza della prosa, per l’audacia musicale.

Dopo 35 anni di regno dell’inarrivabile allestimento Strehler – Frigerio, La Scala sceglie di riavvicinarsi alle Nozze (una delle opere più rappresentate della storia recente del teatro milanese) con piglio rivoluzionario.

Regista giovanissimo e acclamatissimo sui palcoscenici internazionali, da Glyndebourne ad Avignone, Frederic Wake-Walker sembra voler farci svegliare dal sogno popolato di trine e merletti, eleganza e misura – insomma: di passione sussurrata – a cui ci eravamo abituati.

L’energia dell’ouverture si traduce nella frenesia di un aitante Figaro che dirige i lavori di costruzione delle scenografie, aiutato da una compagine di signorine nero vestite che per tutta l’opera ci accompagneranno. Chi sono costoro? Assistenti di scena, sgherri del conte, manovali tuttofare, mimi, ballerine? Non lo sapremo mai. Così come per il suggeritore in abiti d’epoca in proscenio, che a più riprese ricorda ad alta voce le battute dei recitativi ai cantanti. Sicuramente figure molto presenti che dovrebbero, forse, sottolineare il labile confine tra finzione e realtà e indicarci che è ora di prendersi meno sul serio e divertirsi.

È ora di abbandonare le vecchie abitudini e il buon senso aristocratico della versione strehleriana e lasciarsi trasportare da questa folle giornata. E allora, la poltrona del primo atto è il simbolo della precedente edizione da omaggiare, da saccheggiare e da distruggere. E Figaro ci salta subito sopra, fino a spaccarla. È il simbolo della furia iconoclasta del regista scozzese. I lampadari in cristallo che calano dall’alto, il coro delle “giovani liete” con i mazzi di fiori, le crinoline della Contessa e il costume di Cherubino diventano citazioni deformate e grottesche. I finali d’atto sono scomposti carnevali. Follia, appunto. E puro divertimento, come si conviene all’opera buffa che in quest’occasione diventa derisione delle convenzioni.

«Castigat ridendo mores», si leggeva sotto il busto di Arlecchino davanti alla Comédie Italienne. E questa volta sono derise le nostre abitudini da spettatore. L’oggetto della satira siamo noi con le nostre pigrizie e l’incapacità di lasciarsi andare al meraviglioso gioco del teatro.

Tutto ciò è fastidioso. In un primo momento, estremamente fastidioso. La sensazione che ci si trovi davanti a un’esagerazione di mossette, sottolineature eccessive e trovate estemporanee per farci ridere e arrivare alla fine dello spettacolo è forte. È solo a una seconda lettura, quando ci si chiede il senso del progetto teatrale, che si scopre il tiro subdolo che il “camminatore sveglio” ci ha giocato. I cantanti sono assolutamente consapevoli e complici di questo scherzo, ma non ci dicono nulla. Anzi, fanno a gara a farci credere che ci si trovi davanti a uno spettacolo tradizionale solo un po’ stravagante. La modernità dei recitativi, l’appropriatezza del canto e le superbe doti canore di tutto il cast contribuiscono maggiormente all’illusione.

La Diana Damrau è una Contessa gigantesca. Fredda al punto giusto per superiorità manifesta rispetto a tutti gli altri personaggi. Perfetta tecnicamente, fermandosi a un passo (ma mai varcando la soglia) dalla leziosità. Le due meravigliose arie sono cantate quasi sottovoce con impressionanti messe di voce e filati semplicemente perfetti, così come duetti, terzetti, quartetti e quadri d’insieme ci mostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, la sua duttilità e intelligenza di musicista e cantante.

Il Conte di Simon Keenlyside sfoggia grande presenza scenica, modernità di approccio, corpo e colore di voce, talvolta, raramente in verità, al limite del controllo. La preziosa civetteria di Susanna (Golda Schultz) è rivista qui in chiave contemporanea con bella voce e consapevolezza vocale e scenica. Le fa il paio la vitalità frenetica di Markus Werba, che corre e salta per tutto il tempo con notevole prestanza fisica, più convincente nei recitativi e nel registro acuto che in quello grave. Il Cherubino della Marianne Crebassa, eccezionale nel Lucio Silla della scorsa stagione, si trova meno a suo agio degli altri nel disegno complessivo di regista e direttore, così infagottata com’è in un improbabile vestitone azzurro. Voi che sapete che cos’è amor è una delle più belle arie dell’opera e la Crebassa le rende sicuramente giustizia.

Il suono caldo e umano del Mozart che l’orchestra della Scala negli anni ha saputo costruire è qui tradotto in una corretta precisione meccanica. Il direttore conduce in porto la nave, senza emozionare né intrigare.