052_K65A5888

Buio totale in sala. Silenzio. La luce di una torcia si accende e si spegne a intervalli di un secondo.

Si intravede la figura di un uomo seduto in proscenio. È Orfeo. L’orchestra è al centro del palcosenico su una piattaforma che salirà e scenderà in cielo e nell’averno per tutta la durata della rappresentazione. È l’uomo Orfeo raccontato dalle sue parole, descritto dalla musica, disegnato nei suoi turbamenti dai movimenti scenici e dai balli, al centro del pensiero teatrale del duo John Fulljames (regista) – Hofesh Schechter (coreografo ma in verità coregista). È una rappresentazione di Orphée et Euridice profondamente contemporanea nel suo andare alla radice dei sentimenti e del dolore, così distante dal distacco neoclassico o dall’eccesso barocco.

La versione francese dell’opera, per la prima volta sulle tavole del Piermarini, insieme alla regia, fatta di piani architettonici puri, di recitazione naturale, di luci che traforano i solidi, di colori caldi e avvolgenti che diventano ora buio totale ora freddo glaciale, ci trasportano in una dimensione senza tempo e senza stili, che va al di là della storia e della mitologia per restituirci la purezza dei sentimenti, per restituirci l’uomo. È l’opera della riforma gluckiana che prende il distacco dalle consuetudini Settecentesche e che in questa versione e in questa edizione ci porta ancor più in pieno Ottocento musicale, oltre Cherubini, oltre Weber, oltre Bellini, a un passo da Wagner.

L’uso delle danze in maniera tanto pervasiva ci regala non solo musica meravigliosa, ma un vero elemento drammaturgico e narrativo reso tanto più evidente dalle coreografie di Schechter e dalla bravura della sua compagnia di danza che uniscono stilemi della danza classica a elementi popolari e tribali. La fisicizzazione dei sentimenti – attraverso l’uso della danza e dell’orchestra, in funzione scenica al centro del palcoscenico – sono come proiettori che mettono in luce la felicità e il dolore di Orfeo, così come il fantoccio in fiamme in proscenio all’inizio e alla fine dello spettacolo che altro non è se non una proiezione ideale del protagonista.

Sarebbe difficile immaginare questo disegno senza la credibilità vocale e scenica di Juan Diego Florez, un Orfeo straordinario che scolpisce le parole, che misura i gesti, che canta come se le sillabe avessero un peso specifico determinato dalle note. È tutto così naturalmente drammatico e terribile da non fare attenzione alle difficoltà vocali, che pur la partitura impone. Che artista. Negli anni ha addomesticato una voce rara per farla diventare puro strumento narrativo. Una deliziosa Fatma Said dipinge un Amore musicalmente perfetto che diventa pungolo e sostegno al racconto di Orfeo. Christiane Karg ci regala una Euridice di bellezza vocale, di sensibilità e presenza drammatica.

Il direttore Michele Mariotti legge l’opera con grande raffinatezza, compostezza e precisione stilistica. Si sente parte di un disegno complessivo a servizio dell’opera e della storia. Non c’è un solo momento di inutile protagonismo. Tutto procede per incastri naturali, l’un dopo l’altro, l’uno nell’altro sino al buio finale. Orchestra e coro impeccabili.

Spiace segnalare, un isolato ma insistente contestatore che ha voluto punire il direttore, non si sa bene per quale ragione, e che attribuirei, più che altro, a faide o protagonismi di qualcuno sito nella parte sinistra del loggione. Un’imboscata sgradevole e immotivata. Trionfo generale con un’ovazione all’unisono nei confronti di Florez come non si sentiva da tempo.