Otello-Teatro-Regio-Parma

Secondo Verdi, l’esito di un’opera si decideva alla sesta replica: se la cassetta era piena, il successo era certo.

Fare i conti in tasca al Teatro Regio di Parma sarebbe da impudenti, ma in ossequio a un parere tanto autorevole abbiamo aspettato qualche rappresentazione prima di valutare Otello, titolo principale del Festival Verdi 2015.
Fra i nomi che compaiono sul cartellone, il più altisonante è senza dubbio quello di Pier Luigi Pizzi, uno dei decani della regia d’opera italiana. La sua lettura del capolavoro verdiano mira a ricreare con tratti essenziali la mediterraneità cipriota. Il palcoscenico, molto inclinato, è occupato da grandi parallelepipedi color sabbia che stilizzano architetture esterne ed interne; a ogni cambio di scena, l’aggiunta di arredi (un faro, alberi, un trono, un letto) esplicita le singole ambientazioni. Otello e il coro indossano ampie tuniche colorate; Jago, Cassio e Roderigo divise in cuoio nero per nulla coerenti con il resto della scenografia; Desdemona conserva per tutto lo spettacolo una veste candida, simbolo (fin troppo manifesto) della sua innocenza. L’effetto visivo globale non è memorabile, così come non lo sono i movimenti scenici, spesso approssimativi: significativamente, le situazioni meglio riuscite sono quelle statiche, come il plastico tableau nel concertato del terzo atto.

Se la regia non convince, la prova dei solisti risulta qua e là squilibrata. Grande volume, nettezza di emissione, timbro squillante: l’Otello di Carlo Ventre è centratissimo dal punto di vista vocale, ma difetta di credibilità attoriale. Impegnato solo nella terza e nella quarta recita, il tenore uruguagio abbozza movenze compassate che non sempre traducono il rovello interiore del personaggio. Di segno opposto la prova di Marco Vratogna nei panni di Jago: ben focalizzata l’interpretazione scenica (anche se talvolta guascona più del dovuto), mentre quella musicale risulta un po’ sbiadita, con un fraseggio a tratti legnoso e acuti affaticati. Del trio di protagonisti, la parte meno riuscita è però quella di Desdemona, impersonata da Aurelia Florian: la voce manca di spessore e volume, e tende talvolta a slanci veristici poco pertinenti. I comprimari interpretano coscienziosamente i rispettivi ruoli (spicca soprattutto l’ottimo Cassio di Manuel Pierattelli), e il coro preparato da Martino Faggiani offre un’esecuzione efficace, pur occupando la scena in modo impacciato. Convincente, infine, Daniele Callegari alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini: la sua direzione riesce spesso a mascherare le approssimazioni del cast vocale, lavora di lima nel plasmare tempi e dinamiche, e mantiene un ottimo equilibrio negli assieme.

Il pubblico è numeroso, internazionale e plaudente: nella lunga stagione di vacche magre che sta attraversando il Teatro Regio già questo è un ottimo traguardo, che Verdi di certo apprezzerebbe. Eppure, se avesse visto questo Otello, è probabile che, come noi, anche l’illustre bussetano sarebbe uscito da teatro con l’amarognola sensazione di aver assistito a uno spettacolo che, in fondo in fondo, non ha onorato tutte le aspettative.