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Aaron Jay Kernis è un gentile signore minuto, dagli occhi vivi e dalla parlata veloce. Pieno di ironia e di vivacità, parla sottovoce. Ci ricorda un po’ il Woody Allen di “Manhattan” o di “Io e Annie”.

È ascoltando la sua musica e ricordando le battute dissacranti dell’attore/regista americano su Wagner e Malher che mi è venuto da pensare a come un Oceano di mezzo (nonostante gli aerei e nonostante internet) abbia causato una frattura insanabile nel modo di scrivere e di ascoltare la musica sulle due rive di quello che gli inglesi chiamano amabilmente “il pond” (il laghetto). È come se la rottura tonale e melodica prodotta dalla dodecafonia fosse stato un accadimento solo europeo. L’America (ma anche la Russia, in fondo) non l’ha mai accettata. Anzi l’ha negata. È come se negli States la storia musicale avesse avuto uno sviluppo lineare nel solco dei Romantici, dei Debussy, degli Stravinsky. L’ Europa è, invece, ripartita da zero costruendo un nuovo percorso più ermetico e più intellettuale.

Kernis è l’emblema di questa alterità della musica americana. La sua produzione parla all’orecchio più che ai meandri del cervello. Sarebbe sbagliato sottovalutare la musica di Kernis o bollarla di “piacionismo”. Non lo è. È semplicemente un modo diverso di vivere la coscienza musicale, meno intellettualmente compiaciuta e più direttamente legata al fattore esperienziale (sia esso il dato storico o quello personale).

I tre brani ascoltati manifestano il percorso dell’autore nella sua poliedricità.

“Second Ballad“ – duo per pianoforte e violoncello – è sicuramente spiazzante. Per la sua indecente genuinità melodica e per l’eccessiva facilità d’ascolto. Come capita con gli Americani quando, in un secondo, ti raccontano i drammi della propria vita senza conoscerti e viene da ritrarsi per un senso di pudore dei sentimenti che è tutto nostro. Ma è la scrittura e il modo elegante di intrecciare le melodie il vero segreto, così come il modo di scomporre e distruggere la forma sonata è sorprendente. Basta ascoltare la lunghissima introduzione che si scioglie in un meraviglioso tempo lento che si risolve in un frenetico prestissimo della durata di poche battute.

“Trio in Red“ (originariamente intitolato “Seeing Red“), è un brano scritto attorno alle sensazioni che possono essere percepite pensando al colore rosso. Sinestesia allo stato puro nel concetto, eclettismo nella musica, libertà e fantasia nella forma (o meglio nell’assenza di impianto formale).

Evocazione dei sensi e sfogo dell’immaginazione che ritroviamo in modo ancora più rarefatto e allo stato ancor più amorfo in “Pieces of winter sky“ per sestetto. Immaginate di essere a New York. Anzi, immaginate di essere a Brooklyn Heights o a Park Slope. Immaginate di essere da soli alla finestra e di aprire tutti i vostri canali sensoriali verso l’esterno. Il cielo che cambia colore. Le sfumature di grigio non sono 50 ma molte di più. Una macchina scivola sul ghiaccio. Passi rallentati dalla neve. Un albero cede il suo carico. E poi, per un secondo, uno squarcio d’azzurro. Le finestre attorno e i cumuli di neve brillano. Un fluire continuo di situazione in situazione di emozione in emozione. Post impressionismo musicale e neorealismo emozionale. Come se tutto accadesse per caso.

Programma:

Second Ballad
duo per pianoforte e violoncello (Prima esecuzione europea)

Trio in Red
per clarinetto, violoncello e pianoforte

Pieces of Winter Sky
per sestetto (Prima esecuzione italiana)

Esecutori:

Sentieri Selvaggi

Carlo Boccadoro
direttore

Foto credit – Giovanni Daniotti