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C’è un prima, c’è un dopo e poi c’è Simon Boccanegra. Prendi Rigoletto, prendi Otello , cospargilo di Don Carlo e avrai Simon Boccanegra.

È un’opera di capitale importanza per Verdi. Il tema della ragion di stato, il rapporto padre – figlia, il male e l’intrigo, la maledizione, le grandi parate, la corte, i giardini segreti. Tutti gli ingredienti drammaturgici e musicali del Verdi popolare e del Verdi maturo sono qui concentrati. Francesco Maria Piave e Arrigo Boito insieme in un ideale passaggio di testimone tra passato e futuro. È tutto questo il Simon Boccanegra del 1881. È la chiave di volta dell’evoluzione musicale di Verdi. Le arie si sciolgono in melodie che non hanno inizio e non hanno fine, i numeri musicali si concatenano l’un con l’altro. L’invenzione tematica diventa momento drammatico, cioè azione che diventa musica e musica che diventa azione. Non così lontano dal pensiero di Wagner, tutto sommato. Il colore della musica si fa più scuro, l’impasto più audace. Rimangono le tracce della trilogia popolare (ben evidenti nella prima edizione del 1857) che vengono trasfigurate in una visione complessiva del dramma che echeggia il Don Carlos o la Messa da Requiem.

Myung-Whun Chung è uno dei più importanti direttori verdiani in circolazione e ama particolarmente Simon Boccanegra (forse l’opera che ha eseguito di più). In questa occasione ci trascina in una lettura straordinaria, la più avvincente tra tutte quelle sentite da lui in fatto di opera.

Chung ha una visione teleologica di questo capolavoro e la sottolinea con una tensione continua e un’agogica pulsante che tiene incollati alla poltrona dall’inizio alla fine. Un suono spesso e scuro che funge da trama narrativa, da amalgama dalla quale emergono le voci e i suoni di legni e di ottoni come episodi della storia del Doge.

Leo Nucci è un Simone eccezionale per intensità, per fierezza, per dolcezza. A 74 anni ha una possanza vocale e un squillo davvero sorprendenti. I rari episodi di discontinuità nella sua prestazione sono compensati ampiamente dall’importanza della sua interpretazione.

L’Amelia/Maria della Krassimira Stoyanova è forse il personaggio più definito dello spettacolo sotto il profilo sia vocale sia interpretativo. È una Amelia forte, assolutamente non rinunciataria, anzi: una donna moderna che in qualche modo cerca di guidare il destino proprio e di quelli che ama sin dove è possibile. Una bellissima voce, intelligente nel dosaggio dei colori e nella proprietà d’uso dei propri mezzi. Fabio Sartori è un Gabriele Adorno di mezzi notevolissimi. Che gioia poter sentire una voce di tale bellezza. La sua interpretazione predilige lo squillo e la potenza alle sfumature, l’agire alla riflessione.

Una compagine di canto consistente e compatta che trova nel Paolo Albiani di Dalibor Jenis un perfetto Jago ante litteram e nel possente Jacopo Fiesco di Dmitri Belosselskiy un alter ego di Simone nel dolore come nella pietà.

È forse la regia di Filippo Tiezzi a mostrare ormai qualche stanchezza e parecchie sfocature. Se l’impianto complessivo rimane valido e in qualche scena emozionante (il prologo, la scena del consiglio e il doloroso finale), alla sua quarta ripresa scaligera ha un che di impreciso e di già visto. Non solo perché lo abbiamo già visto (chi si stancherebbe di rivedere oggi il Simon Boccanegra di Strelher?) ma perché i trucchi e i luoghi teatrali che segnano più di una scena sembrano oggi far parte di un armamentario consueto a molte messe in scena. Tutto questo risulta oggi più evidente perché si sposa a una debolezza nel coordinamento delle azioni dei cantanti lasciati alla propria esperienza del ruolo, più che all’adesione a un preciso disegno registico.

I sussurri del coro sono da brivido freddo così come la precisione dei suoi squilli, la scansione di ogni parola. Orchestra meravigliosa. e questo è diventato un dato assodato che è però sempre bene ricordare.