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Stiffelio sta facendo parlare di sé. L’opera è stata un trionfo e il Festival Verdi, con questa scelta coraggiosa, ha vinto la scommessa.

L’aspettativa e la curiosità per questo nuovo allestimento proposto da Graham Vick – regista creativo e sperimentale conosciuto in Italia come provocatore – erano alte, fomentate dalla bagarre che già quest’estate aveva fatto discutere: all’annuncio del regista che il pubblico avrebbe assistito allo spettacolo in piedi, i loggionisti indignati si erano opposti preventivamente e lo stesso Riccardo Muti, in tour in città, li aveva invitati a «fare le barricate». Salvo poi ritrattare.

Stiffelio ha zittito tutti. Il titolo, si sa, non è facile da proporre: non è uno dei più grandi capolavori del compositore di Busseto, è più definibile come “anticamera” della grande trilogia popolare, nonostante se ne riconoscano momenti di gran drammaticità e innovazione. Come il duetto del terzo atto, ad esempio, un misto di rabbia, disperazione e sconvolgente passionalità, quasi animalesca, che Maria Katzarava riesce a rendere in tutta la sua forza.

Si diceva, non è un titolo semplice né che compare spesso in cartellone (anzi, quasi mai) e probabilmente solo un Festival interamente dedicato a Verdi può permettersi (e anzi, ha forse il dovere) di proporlo e portarlo in scena. Il soggetto, insolito e audace negli anni ‘50 dell’Ottocento – un pastore protestante perdona la moglie, colpevole di tradimento, dopo averle fatto firmare in un primo momento un atto di divorzio. Addio quindi ai grandi personaggi storici e alla psicologia sommaria del vecchio melodramma – è stato sapientemente trasportato ai giorni nostri: Vick, in un susseguirsi di scelte intelligenti, denuncia l’ipocrisia dei difensori della famiglia “perfetta”, alla “Mulino Bianco”, spesso impeccabile ma solo ad una prima facciata. Colpiscono fin dall’ingresso in sala le grandi lenzuola distribuite sugli spalti a mo’ di manifesti del «Family Day» che recitano: “La famiglia noi la difendiamo”, “Tu sei un bene per me”.

Il pubblico, in piedi per tutta la durata dello spettacolo (ma per chi volesse, il secondo e il terzo atto si possono godere anche da una parte di spalti), si muove nello spazio del Farnese di fianco a mimi – che a seconda dei momenti leggono, bisbigliano, si spogliano –, coristi e ai cantanti stessi (cast nel complesso ottimo, sia per il canto sia per la recitazione) che salgono e scendono da passerelle mobili. In un angolo l’orchestra e il direttore, Guillermo Garcia Calvo, bravissimo a tenere le fila del tutto. Ognuno può scegliere la propria posizione, avvicinarsi alla buca, vedere la scena da lontano o a fianco dei protagonisti. Ognuno partecipa al dramma, facendone necessariamente parte. Anzi: non si guarda il dramma, si vive. Fisicamente, tangibilmente.

Se l’effetto in un primo momento può risultare straniante e, per alcuni, quasi fastidioso, proseguendo non può far altro che coinvolgere e trascinare in maniera totalizzante, nonostante tutte le difficoltà che una tale impostazione può causare: si potrà criticare il fatto che i cantanti non sempre siano a tempo, la concentrazione è ben diversa da un’impostazione classica, c’è un continuo movimento e conseguente rumore nel sottofondo. Ma quando un’intera platea arriva alla commozione nella scena finale, nel momento del perdono, tutto il resto cosa conta?

Foto © Roberto Ricci