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Relegata a cartelloni specialistici, la polifonia antica è piatto sempre più raro nel menu delle stagioni concertistiche, ove il sinfonico abbonda.

Ma ci sono le eccezioni: domenica 29 gennaio al Teatro Valli di Reggio Emilia, s’offriva ampio buffet del bistrattato genere. Primo pezzo in cartellone un Laudate pueri a otto voci di Palestrina. Basta quella ti addolcita di ci nel verso iniziale a farci capire che siamo di fronte ad esecutori inglesi. Non inglesi qualunque, ma i Tallis Scholars, compagine leggendaria non troppo lontana dal mezzo secolo di vita, guidata da quel Peter Phillips che bonario (gesto distinto, pare sbozzar l’aria) dirige ancora l’ensemble con britannico aplomb.

Non è musica per il teatro, si lagna qualcuno. E i due Palestrina iniziali sembrano fatti proprio per capire come piegare le secchezze sonore del teatrone all’italiana e saggiarne la risposta sonora: diventano allora una sorta di sbalorditivo Bolero polifonico, tanto tendono al dosato crescendo. Segue una monteverdiana Messa a quattro, che riluce di linee vocali mai vibrate e fruscia di nette consonanti laddove s’infittisce il contrappunto. Un Monteverdi poco lussureggiante nel fraseggio, specie se sentito dopo la lezione di certi italici ensemble. Ma quel fraseggiar breve e frammentar la frase, la perfezione accordale, quella sillaba finale dell’Agnus Dei di colore scuro, intonatissima, è mistica ben oltre la pura efficienza vocale.

Efficienza che ritroviamo nello stranoto Miserere allegriano, servito con parsimonia di variazioni: i Tallis si spaccano in due cori, uno sta in scena l’altro in un palchetto di terz’ordine, fremente e umano intona i suoi versetti il tenore Simon Wall a bordo palco. Aria di spazializzazione contemporanea che prelude all’unico brano non italiano della serata, un Recordare, Domine del poco più che trentenne Nico Muhly, scritto nel 2013 per celebrare i quarant’anni dell’ensemble, sfoggio di suoni tenuti, strappate aspre dei bassi, infallibilità nell’intonare a colpo sicuro accordi impervi. Un lunare O vos omnes di Gesualdo da Venosa, poi si rotola verso la fine: il Crucifixus di Lotti (struggente, teatrale, noto perlopiù agli addetti ai lavori, tinto di nuovo colore ad ogni accordo) contrasta perfetto col terso cromatismo di un altro Crucifixus, tratto dalla Selva morale e Spirituale di Monteverdi come i due pezzi che seguono. Chiusa con un Cantate Domino (sempre del divin Claudio) festoso e lieve più che sfacciato. E bis di Thomas Tallis, colui che dà il nome all’ensemble, autore nel 1570 del mottettone Spem in alium a quaranta voci, influenzato (si dice) da un brano per lo stesso mostruoso organico del nostrano Alessandro Striggio. Gli inglesi imparano dagli italiani, che impararono dai fiamminghi prima.

A secoli di distanza, anglici esecutori aderiscono ancora con entusiasmo a quell’incontro di civiltà fecondo. E ai nostri occhi (e alle nostre orecchie) lo tramandano e lo magnificano di suono prodigioso.