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Sciascia affermava che “la contraddizione definisce Palermo” e si potrebbe anche aggiungere che la capacità unica della città siciliana è proprio quella di interiorizzare le contraddizioni e, come in una reale sintesi hegeliana, trasformarle in qualcos’altro, sia esso prodotto positivo o negativo.

Un esempio stupendo di questa caratteristica della città è la Chiesa della Martorana, monumento della contraddizione e della sintesi degli opposti: immersi in un mare di mosaici di stile bizantino si scoprono simboli normanni, icone ortodosse e, giusto per non farsi mancare nulla, due iscrizioni in arabo che si rifanno ai tempi in cui l’isola era terra di musulmani. Questo incipit solo per far capire quanto Giovanni Sollima sia, nella sua arte, simile alla città da cui proviene e a cui ha dedicato composizioni che, pur proponendo i nervi scoperti e le ferite aperte di Palermo, non riescono a non far traspirare una profonda fascinazione per la complessità culturale e per la stratificazione dei segni che tutti i popoli che da lì sono passati hanno lasciato dietro.

Come per la Martorana, così tutto si mescola nell’opera del compositore siciliano: pur mantenendo visibile il suo specifico registro simbolico, si arriva a una sintesi che, nel sottolineare ognuno degli stili usati, ha nel suo essere completa metamorfosi e miscuglio il suo apice di maggior meraviglia per l’ascoltatore. I moduli tipici della musica minimale contemporanea, figlia dei ’60 statunitensi, sono usati come grimaldello e scusa per mischiare tra loro Beethoven e la musica da pub irlandese, la classica contemporanea e gli echi del sud del Mediterraneo, reinterpretando suoni che giungono dalle parti più disparate degli stili della classica e dell’avanguardia.
Se già, su disco, questa sintesi tra Sollima e la sua terra natale risulta evidente, nel vederlo dal vivo tutto è ancora più vivido, dalla passione ed estasi che lo colgono nei momenti più evocativi delle sue composizioni, fino al trasporto fisico con cui suona il violoncello nei frangenti più terreni e sanguigni. Accompagnato dall’ensemble di Sentieri Selvaggi, in poco più di un’ora Sollima è riuscito a far rivivere il periodo più florido della sua produzione: quella metà degli anni ’90, che lo ha visto assoluto protagonista in Europa – sia dal punto di vista compositivo che dell’interpretazione sotto nuovi orizzonti dello strumento violoncello. Esecuzioni perfette sotto ogni aspetto, compreso quello più emozionale, capaci di far provare allo spettatore quello straniamento che solo il creativo meticciato di stili e di suoni può dare.

Un’ora tutta da assaporare, partendo da “Sento il canto in curva” – ispirata ai canti che popolano le strade palermitane – fino alla suite di “Spasimo”, che oltre a dare il nome alla serata e a essere dedicata a uno dei simboli della contraddizione storico-culturale, linfa vitale di Palermo (una storica chiesa sconsacrata in stile gotico, priva di tetto e riportata in vita dal degrado proprio durante gli anni ’90), riesce a sintetizzare quanto di meglio ha composto il nostro: pattern che si susseguono e si ripetono citando la musica araba, il pop, la tradizione popolare e la musica d’avanguardia. Fino a far perdere l’ascoltatore in luoghi in cui nulla è più d’appiglio e per il quale l’unica soluzione è la resa alle emozioni.

Programma:

di Giovanni Sollima
Quartet Files
Sento il canto in curva
Spasimo

Esecutori:

Giovanni Sollima, violoncello

Paola Fre, flauto
Mirco Ghirardini, clarinetto
Andrea Dulbecco, vibrafono e percussioni
Andrea Rebaudengo, pianoforte e tastiere
Elena Casoli, chitarra elettrica
Piercarlo Sacco, violino
Paolo Fumagalli, viola
Aya Shimura, violoncello

Carlo Boccadoro, direzione