Wozzeck 2015

Scritta nel 1922, arrivò a La Scala solo nel 1952. Analoga sorte l’opera ebbe in altri grandi teatri mondiali. Perché Wozzeck è un’opera che sconvolge? Perché è un’opera che non si deve rappresentare?

C’è un femminicidio. C’è una donna sgozzata in scena, ma anche in Carmen accadeva. Sarà allora per la sua “libera atonalità”? Per la difficoltà d’ascolto? Non penso siano queste le ragioni. Non si tratta solo di scandalo (sociale o musicale), se quest’opera ci dà ancora oggi un senso di fastidio. Non è la vicenda, è il personaggio. Wozzeck è la follia che è in noi, Wozzeck è il disagio di tutti noi. È la sua inadeguatezza alle situazioni e ai rapporti umani. È il suo non saper gestire il confronto con la società in cui vive, il non saper trovare un dialogo con qualsiasi persona lo circondi. Wozzeck è un diverso. Così come siamo noi diversi da tutto quello che ci sta attorno. Wozzeck è vittima degli altri, perché è vittima di se stesso. E Wozzeck uccide Maria in un percorso che lo porterà alla comprensione completa e quindi a tirare l’unica conclusione possibile: uccidere il suo male, ovvero se stesso. Specchiandosi nel lago rosso di sangue vede la sua anima e pertanto la soluzione. Ma il mondo continua a vivere senza di lui e nonostante lui, e il bimbo che continua a giocare con il suo cavallino è il simbolo straziante di tutto questo.

Jurgen Flimm, il regista, capisce che tanto più analitica e fredda sarà la rappresentazione di questo abisso tanto più chiaro ci arriverà il messaggio. Una scena scarna composta da grandi superfici concentriche come sculture di Richard Serra, che sembrano formare un gorgo al cui centro sta il protagonista e la sua azione ma che diventano anche spalti, a mo’ di teatro elisabettiano, dai quali il mondo guarda e giudica.

Andando a riguardare i commenti a questa regia nell’edizione del 1997, ci vien da dire che il gusto teatrale del pubblico scaligero abbia avuto, per fortuna, una sua evoluzione. Se alcune sottolineature simboliche ci sembrano oggi un po’ ingenue e forse datate, la forza di questa regia rimane eccezionale proprio grazie alla sua essenzialità e al suo concentrarsi sul protagonista, rendendo tutto il resto solo corredo di una tragedia assolutamente personale.

Il direttore Ingo Metzmacher, alla sua seconda opera della stagione dopo lo strepitoso Die Soldaten, ci offre un’altra grande prova in totale sintonia con la regia. L’orchestra è limpida e vive in trasparenza nelle strutture e nei suoni. Tecnicamente impeccabile (i crescendo dei fiati nel terzo atto sono da brivido), il lavoro del direttore punta a sottolineare, anche negli equilibri tra buca e palcoscenico, il dramma psicologico di Wozzeck come una serie ravvicinata di episodi di lucida follia e non come una corsa veristica verso l’ineluttabile.

Ottima prova di tutto il cast dal punto di vista musicale, vocale, recitativo. Roman Trenkel è un Wozzeck estremamente misurato nel rendere l’orrore che si consuma nel personaggio. Ricarda Merbeth è una Marie che comprende bene il disegno complessivo e che si assottiglia fin quasi a sparire davanti al trionfo dell’angoscia del protagonista.